Saggi Storici sui Tarocchi di Andrea Vitali

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'Delle Frascherie' di Antonio Abati - 1651

Uomini donatori e donne avare al gioco delle carte

 

Andrea Vitali, aprile 2018

 

 

Del letterato Antonio Abati nato a Gubbio all’inizio del Seicento e morto a Senigallia nel 1667 si hanno scarne informazioni. Le sue opere più ricordate sono la critica sulla decadenza della letteratura Ragguagli di Parnaso contro i poetastri e partigiani delle nazioni del 1631, la satira Delle frascherie, fasci tre pubblicata a Venezia nel 1651 dove l’autore riprese la condanna attuata con i RagguagliLa guerra e il Pegasino, opera quest'ultima che assieme alla precedente fu fonte di ispirazione per Salvator Rosa, e infine Il viaggio, narrazione vivace dei suoi viaggi che lo portarono a visitare diverse corti europee.

 

Viaggiò molto infatti, sia in patria che in Francia e nei Paesi Bassi, ma fu in Austria che trovò la sua maggiore gratificazione divenendo poeta di corte dell’Imperatore Leopoldo I. Da Papa Alessandro VII venne nominato governatore di Grotte di Castro, Frascati e Recanati. Stanco di tutti questi spostamenti, ricevette in dono da Vittoria della Rovere, Granduchessa di Toscana, il podere ‘La Stelletta’ in quel di Sinigallia dove trascorse gli ultimi anni della sua esistenza.

 

Nel volume Delle Frascherie 1, cioè “sodi ragionamenti di lettere... per ristorare in gran parte gli animi nostri, dalle militari calamità abbattuti", come detto egli critica i modi letterari del tempo, in particolare certi ‘poetucoli’ pieni più di invidie che di qualità, capaci solo di rubare agli altri quel che mancava al loro ingegno. Nonostante questo, nella pagina dedicata al ‘Lettore’, egli definisce il suo scritto un’opera di finta critica: “LETTORE. In questo Libro di finta Critica non mi cadde in mente di peccare contra la vera humanità di alcuno; e però molto meno nella Divinità di quei Religiosi precetti, de’ quali osservatore fui sempre. Ti protesto dunque, che le voci Fato, Destino, Fortuna, Sorte, Dei, Idoli, e simili sono in queste Carte puti termini di Poeta, e non impuri motivi d’animo Ethnico 2

 

Ovviamente fu una strategia per difendersi a sua volta dalle diffamazioni che gli sarebbero state rivolte dai ben pensanti letterati del tempo, come già da lui espresso nella dedica a Don Luigi de Benavides, Governatore e Capitano Generale dello Stato di Milano oltre che nella pagina ‘L’Abati al Libro’ in cui egli discorre con il libro stesso.

 

Fra gli argomenti presi in esame dall’autore troviamo anche il gioco delle carte.

 

Famosi sono i versi da noi già riportati in altro nostro intervento 3 dove l’Abati estende la sua critica verso coloro che guerreggiano a carte. Se tale guerra può essere paragonata a quella vera dove a volte si perde e a volte si vince, tuttavia occorre considerare che fra il punto che si ottiene alle carte e la punta delle spade esiste una notevole differenza:

 

La Guerra al Gioco de le Carte è pari,

     Dove si perde, e vincesi tal volta,

     Dove assistono Rè, Fanti, e Denari.

 

Ma più la Guerra delle Carte è stolta,

     Che da Spada dipinta à Spada vera,

     Da Punto à Punta è differenza molta. 4  

 

Critica, comunque, il giocare a carte per un insieme di motivi che sono quelli usuali di tante invettive religiose, fra i quali il perdere tempo e denari.

 

“Il Giuoco è trà le cose honeste cōpreso [compreso]; e ben savij ponno additarsi coloro, che di lui honestamente, e con fine anche d'arrischiar venture si vagliono; ma dirò bene, che in esso per lo più il meglior Artefice è il peggior’ huomo; e di quei buoni huomini, che ne' suoi esercitij cōsumano [consumano] indiscretamente l'hore, eccovi le pratticate sciocchezze.

 

Logorare in mestiero da giuoco il suo senno, aspettare con le saviezze d’un’arte le discretioni d’una stolta fortuna, mercare da se medesmo à prezzo di timori le fallacie d’una speranza, avventurare nell'incerto di frivola carca il sicuro de' suoi tesori, rimettere à gli arbitrij d'un caso l’агte d'un arbitrio, invitare l'Avversario à rischi, & à rischio d'un avversario invito attenersi; e finalmente per un punto in un punto impoverirsí, perder il Tempo, & e in breve tempo quelle sostanze  che con longhezza di tempo s’adunano. Pur troppo è giuoco l 'humana vita, senza che la vita ne' giuochi medesimi l’esperimenti. Diceva un faceto Poeta.

 

Gioco siam noi di questa avara etade.

     Quanti provar vid’io da gli Avversari

     Infra COPPE di mensa arme di SPADE,

     Et à quanti i BASTON tolser DENARI.

     E se ciò non vi basta, udite questo. (SO,

     Quāti pochi in buō PUNTO hāno fatto PASTO,

     Quāti in mal PUNTO hāno perduto il RESTO,

     E quāti RE vidi restarne in ASSO 5.

 

L'Abati, come la maggior parte dei letterati del suo tempo, riteneva che l'invenzione del gioco delle carte fosse antichissima. A differenza di altri che ne indicavano l'autore in Palamede che per non annoiarsi sotto le mura di Troia pensò di lasciare libero sfogo alla sua fantasia, l'Abati lo introduce qui nell'antica Asia in casa di un certo Stamperme, satireggaindo su un principe italiano, di cui non fa il nome, il quale non trovò di meglio, dato il dolore provocatogli dalla morte del padre, di additare alla Corte la sua necessità di riprendersi tramite qull'onesto gioco:

 

"Non meno de’ già disposti Amici, appagossi Ticleve del savio consiglio di Stamperme, e piacqueli sopra tutto l’esclusiva, che diè in comune a' passatempi di Giuoco, per contraporsi, ne’ casi delle mestitie, non solo al costume de gl’idioti Cittadini di quei tempi, ma etiandio alla natura d’un certo Principe Italiano, che vedendosi astretto à celebrare con le ritiratezze il lotto, cagionatoli dalla morte del padre, non seppe trovar meglio mezo, per additare alla Corte la necessità, che haveva di temprare le sue cupe doglie con qualche honesto sollevamento, ch ‘l trastullarsi fra i suoi confidenti al giuoco delle carte; onde poteva dirsi di lui quel che d’un simile caso esagera Seneca. Proh pudor Imperij. Principis Romani lugentis sororem Alea solatium animi fuit" 6.

 

L’autore, rivolgendosi agli uomini, critica poi il loro giocare a carte con le donne, dato che quest’ultime lo praticano appositamente per impoverire i portafogli degli uomini che egli definisce come ‘Donatori’ al contrario di certe donne considerate ‘Avare’. Il seguente racconto parla infatti dell’irresistibile fascino esercitato da una nobildonna la quale, al solo intimare ad alcuni uomini a presentarsi presso la sua abitazione per giocare a Primiera e a Flusso 7, li coinvolge a tal punto da farli accettare l'invito con la convinzione che avrebbero perso i loro denari, non tanto per la bravura della donna, ma solo per il desiderio d’essere annoverati qual ‘Cavalier serventi’. Infatti, se da un lato abbiamo uomini la cui volontà è di donare denari attraverso il gioc, alla signora facendo un compromesso con la fortuna, dall’altro troviamo un'avara signora che vuole che la fortuna la assista facendo finta di non avere alcuna volontà di vincere.  Quindi, poiché andare a riunioni del genere significava saper già di lasciare denari in quelle case, sarebbe stato necessario, invita l’autore, che gli uomini avessero puntato denari il meno possibile al contrario delle donne che sapendo di vincere avrebbero fatto l'opposto.

 

“Vengo, Amici, di Corte, ove spettatore mi trovai d'un bell' atto. La Padrona i dì passati intimò à’ Cavalieri più ricchi della Città, che gissero à giocar seco in Palazzo; & hoggi appunto s'è appiccata la mischia. Hor’e un leggiadro spettacolo il vedere da un lato un Donatore, che vuol l’esser rubato dalla Volōtá [Volontà], per obligar la Fortuna, e dall'altro un'Avara, che vuol doni dalla Fortuna, per nō [non] haver oblighi alla Volontà. Voi già intendeste la Cifra. I denari di quei Giucatori son come gli Animali, che visitarono il Leone infermo; niuno ne torna in dietro. Si portano borsoni pieni; ma si fanno voti, perche i voti non si fanno, che per ricever gratie. Pensar di vincere è caso di processo, il vincere è corpo del delitto. Il Giuoco è di Primiera, ma le regole son disordinate. Chi non fá sempre passo, non può far passata, chi non getta al monte, stà sempre basso, e mostra molta pūtualitá [puntualità], chi mostra pochi punti. Insomma chi non asconde le Primiere, si fà veder fra gli ultimi, e chi vince col Flusso, è tenuto in quel luogo, onde i flussi hanno esito. Hor che dite di questo secoletto, Amici? Dov’è quel tempo d' Augusto, il quale si vantò in una lettera à Tiberio, di non haver maggiore, e più comoda occasione di donare, che in giuoco? Hoggí il Giuoco vale d'occasione alle Dame nostre, per giustificare i lor furti. O sæcula, o mores.

E vi maravigliate, disse ridendo Stamperme, che le Dame impoveriscano chi gioca con esse? nó sapete, ch'è proprio delle donne ridurre gli huomini in camicia? E peró, soggiuse allhora Ticleve, dovrebbono gli huomini giuocar tirato; mētre [mentre] si vede, che le donne hanno sempre giuoco largo, & invitano” 8.

 

Note

 

1. Le Frascherie di Antonio Abati Fasci Tre, In Venetia, Per Matteo Leni, M.D.C.LI [1651].

2. Ibidem, s.n.p.

3. Si veda Follia e ‘Melancholia’.

4. Le Frascherie, cit., Fascio Primo, p. 87.

5. Ibidem, Fascio Primo, pp. 14-15.

6. Ibidem, Fascio Primo, p. 13.

7. Primiera e Flusso furono due giochi di carte molto famosi a quel tempo.

8. Le Frascherie, cit., pp. 11-12.

 

 

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