Saggi Storici sui Tarocchi di Andrea Vitali

Saggi dei Soci e Saggi Ospiti

Smorfia, Arte "corrispondenziale"

Cabala figurale in un “mazzo” di Arcani onirici

 

Di Giuseppe Maria Silvio Ierace

 


La tombola è un azzardo familiare, sostituto natalizio della lotteria, che per la forma cilindrica della tessera di legno numerata vagamente ricorda lo strumento di lavoro per la realizzazione di pizzi e merletti, da cui assume il nome. Per non distrarre i fedeli dalla preghiera, le giocate al Lotto venivano sospese, a Napoli, sotto il regno di Carlo III di Borbone, per tutto il periodo che dall’avvento va fino all’epifania. Cosicché dal 1734, nel meridione d’Italia, la tombola prese a caratterizzare le festività solstiziali di fine anno, insieme con la fioritura artistica del presepe, e se in questo la consuetudine della rappresentazione dava risalto al simbolismo dei personaggi (dormiente, vinaio, pescatore, monaco, zingara, lavandaia, meretrice, venditori, compari, ecc.), anche in ambito ludico si rafforzava quel reiterato abbinamento di numeri a soggetti, cose, accadimenti, serpeggiante fin dalla più remota antichità in una cabala tradizionale (1 sole, 4 stelle e comete, 6 luna, 26 zingara che astrologa, 29 campo di battaglia, 39 impiccato, 41 pescatore, 45 lavandaia, 47 torre, 49 innamorata, 53 bastimento, 55 due serpi, 59 vasi con fiori, 61 cacciatore, 63 sposi, 68 ponte, 75 bramante e pellegrino, 78 prostituta, 81 giuocatori di carte, 89 invidia, 90 fortuna) e in altre minori, locali (genovese, romana, fiorentina), ma non per questo meno celebri, quale la napoletana, figurale, morfeica perché composta di arcani onirici, meglio nota come Smorfia.

 

La smorfia ha radici lontane, arcaiche, che si diramano da riduzioni volgarizzate di quegli, altrimenti perduti, Libri Sibillini, rifiutati dal re Tarquinio, andando a ritroso fino ai riti d’incubazione d’epoca sumerica. Altri libri di sogni provengono dalla tradizione greca, praticata, a scopi terapeutici, nei santuari di particolari divinità, come Asclepio a Epidauro. Nel secondo secolo della nostra era ne furono prosecuzione e testimonianza i cinque volumi di Artemidoro di Daldi, conosciuti come “Onirocriticon” che, insieme  con altri libri di oniromanzia, durante il periodo dell’influenza bizantina, vennero semplificati in un elenco standardizzato di corrispondenze.

 

Nel Rinascimento, colti umanisti, come Cardano, Della Porta, Paracelso, o Pico della Mirandola, rivalutano i testi ermetici che ispirarono la cabala ebraica, secondo la quale non esiste nulla che nelle sacre scritture non possa venire posto in correlazione con un qualche occulto significato. Allorquando, verso il 1539, nasce a Genova il giuoco del lotto, avviene un naturale abbinamento tra l’aspetto ludico e quello divinatorio dei novanta numeri del sistema che nei successivi due secoli venne legalizzato un po’ dappertutto.

 

La numerologia ricostituisce una funzione di tipo calendariale di una tradizione orale che collega appunto a tale quotidianità delle potenzialità oniriche da interpretare nella loro ambiguità. La tradizione colta, più esoterica ed elitaria ricorre alla qabbalah per individuarne delle valenze identificative. Un elenco alfabetico quindi accoppia termini o immagini a cifre per comporre una sorta di linguaggio geroglifico, mentre un’appendice approfondisce in maniera riassuntiva la raffinatezza schematica delle tecniche  di far derivare numeri da altri numeri o da parole, soggetti, attività di tutti i giorni.

 

L’attribuzione di valori numerici alle lettere dell’alfabeto (Gematria) sta alla base di tutte le procedure, il cui principio fondamentale insiste nell’assunzione di celati significati alternativi delle parole correnti, dettati dalle cifre alfanumeriche delle lettere che le compongono, singolarmente, in gruppo, nell’insieme della frase. La trasposizione va a sua volta valutata, interpretata, talvolta mediante l’accostamento alle altre espressioni, e alle altre parole, che abbiano valore significativamente paragonabile o identico.


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Il giuoco, molto presumibilmente,  nasce in Italia, se nel 1339 a Vicenza si avverte la necessità di promulgare uno Statuto che regolamenti i giochi di sorte in genere, e quindi, insieme con carte e dadi (per murbiola, coderone, marelle), anche "Zara" (ad azarum), in cui l'azzardo si faceva con tre tasselli, o astragali (aliossi), e poi le tavole con trenta pedine, per boffa, imperiale, minoreto, sbaraglia e sbaraglino.

 

Il termine “lotto”, però, è germanico, probabilmente olandese (lot assegnare), e un’ordinanza che in Belgio lo vietava risale al 1526. In Francia nel 1539, sotto Francesco I, si chiamava Blanque (bianca), dalla semplice assonanza con i termini “banco” e “banca”, mentre a Londra la prima lotteria si apre nel 1569. L’etimologia della parola richiamerebbe il gotico “hlaut”, o "hleut", un disco da  gettare per decidere divisioni di proprietà e simili, trasformatosi in gioco di sorte basato su un'estrazione, dopo essere stato segno premonitore d’origine divina. Lote in spagnolo, loto in portoghese, lot in francese si traducono con “porzione”; l’inglese allot vuol dire gettare la sorte, mentre l’antico tedesco hliozan, nel medioevo, acquista il valore di predire, e il sassone hlot è participio passato di celare, nascondere.

 

L’origine franca del "lot" rende il significato di premio messo in palio e sempre con carattere fortuito. Altri avrebbero invece pensato più banalmente al numero otto, le cui lettere, col passare del tempo, si sarebbero unite all’articolo determinativo. Non manca neppure chi ipotizza che analoghe sfide al fato non fossero affatto estranee ai sumeri, che nelle loro tombe depositavano il cosiddetto “Gioco di Ur”, ed egizi, a cui erano familiari i tavolieri del Senet, passando per i romani dediti all’Alea, Tabula e Ludus Duodecim Scriptorum. Ma, dalla seconda metà del XV secolo, in pieno Rinascimento, un qualche tipo di “gioco dei numeri da estrarre”, avrebbe via via assunto maggiore importanza, a volte per risolvere imbarazzanti casi di spartizione, altre volte per beneficenza, dispute politiche, o pura ridistribuzione patrimoniale, e quindi dai lotti di terreno (Lotto di Olanda, ad Amersfoort), ai corredi per fanciulle povere da maritare (Lotto della Zitella), dalle cariche pubbliche (Giuoco del Seminario a Genova), ai premi in danaro (Borsa di Ventura di Milano).

 

Intorno al 1448-50, a Milano, esisteva un precursore del gioco del lotto e antesignano della Tombola, ideato da Francesco Taverna, chiamato però “Borse di Ventura”, in forma d’una vera e propria lotteria con in palio 7, o 8 premi, appunto borse contenenti un numero decrescente di ducati di vario valore, estratte a sorte da un apposito “scrutatore”, tra coloro che avevano acquistato dei biglietti su ognuno dei quali veniva scritto il nome del partecipante.

 

In Olanda, mezzo secolo dopo, a Amersfoort, nasce l’idea dei Lotti, e onde appianare i dissidi dei contendenti, si ricorreva al sorteggio per designare delle proprietà indivisibili, “lotti” appunto, o porzioni da assegnare. Per ragioni politiche, nel 1530, il Governo di Firenze confisca poderi, case e oggetti di valore, applica un’imposta straordinaria, e assegna a ciascun cittadino delle polizze numerate, per cui, a parità di ricchezza, si procede all’estrazione dei beni. Padre, apparentemente indiscusso, del lotto moderno sarebbe stato però il “Giuoco del Seminario”, nato nel XVI secolo a Genova. La gente del popolo scommette clandestinamente sui nominativi scelti per ricoprire cariche pubbliche all’interno del Maggior Consiglio della Repubblica. 120 cittadini particolarmente meritevoli venivano candidati per l’elezione semestrale al ruolo di  membri, e da questa rosa, inserita in un'urna, detta "seminario", erano estratti a sorte nel novero di 5, sui cui nomi gli scommettitori puntavano. Nel 1576 i candidati diminuirono a 90 e vennero sostituiti dai numeri, come nel gioco del lotto attuale. Le scommesse furono affidate a dei gestori legalizzati, i quali “tenevano il banco” (un tavolo autorevole sul quale circola danaro, da cui banca), a particolari condizioni, e le accettavano dapprima soltanto per il singolo nome “estratto”, ampliandole in un secondo momento alla coppia (ambo) sui 5 prescelti o addirittura a 3 nomi o numeri (terno), formula massima di scommessa rimasta in vigore a lungo.

 

Nella seconda metà del XVII secolo si diffuse il bizzarro “Lotto della Zitella”, in cui le ragazze meno abbienti, scelte tra il popolo, venivano sorteggiate per vincere una dote che permettesse loro di sposarsi.  E fu forse questo il gioco esportato da Giacomo Casanova in Francia per fornire facili incassi a ministri delle Finanze in deficit. Il memoriale a capi del 12 settembre 1674 l’introdusse anche nel Ducato di Savoia e i suoi proventi sarebbero andati a "beneficio di venti povere figlie ogni anno". Da una lista composta da cento nubili erano ricavati i nominativi di cinque fortunate che si aggiudicavano circa cento lire a testa.

 

Con altro memoriale a capi, del 15 aprile 1696, Vittorio Amedeo II legalizzava nello stato sabaudo "il lotto detto volgarmente giuoco di Genova". Nel periodo dell'annessione alla Francia (1798-1814), a Torino furono introdotte le medesime regole adottate per la "Lotteria Imperiale di Francia". Una vincita pari a quindici volte la posta giocata veniva "accordata" agli estratti semplici, agli ambi 270, ai terni 5.550, alle quaterne 75.000. Ma il pronostico delle "sorti determinate" prevedeva anche l'individuazione dell'esatto ordine di uscita dei numeri giocati e, in tal caso, ovviamente,  forniva vincite maggiori.

 

A volte, le somme derivanti dalla differenza tra i premi in offerta e quelli spettanti, secondo i calcoli delle probabilità, venivano assegnate a scopi di beneficenza e utilità pubblica, e, sotto Papa Pio VI, si provvide in tal modo alla famosa bonifica delle paludi Pontine.

 

Nella Repubblica della Serenissima del XVI secolo era in voga il cosiddetto “Lotho” del Ponte di Rialto, una lotteria a tutti gli effetti, ideata dall’antico Senato, il Consiglio dei Pregadi o dei Rogadi, nel corso della quale si acquistavano dei “bollettini” per partecipare all’estrazione finale di premi consistenti, anche in questo caso, in lotti immobiliari. Ma già intorno al 1522, lo straccivendolo della zona del Rialzo, Geronimo Bambarara, per soli 20 soldi, vendeva dei biglietti, le cui matrici venivano poi collocate in un’urna, mentre in un’altra si mettevano le “figlie” non vincenti contraddistinte dalla dicitura "Pacientia", e le fortunate con su scritto "Precio", che riportavano anche qual era il premio corrispondente.

 

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In Venezia, dal 1743, circolava una Lista del Lotto, a cui fa cenno Rosaura nella prima commedia interamente scritta da Carlo Goldoni: “La donna di garbo”. Tale elenco si deve presumere contenesse le corrispondenze numeriche dei nomi, propri o comuni, allo scopo precipuo di smorfiare gli accadimenti sognati. Al 1790 risale invece il titolo: “Il vero mezzo per vincere all’estrazione dei lotti, contenente tutte le voci delle cose popolaresche, appartenenti alle visioni e sogni col loro numero…”. A Roma, questo tipo di tabelle erano note come “Libro dell’Arte”, mentre nel meridione per indicare “Il libro dei sogni o sia la Chiave dei sogni pel gioco del lotto” prevale il termine Smorfia, come testimonia Serafino Amabile Guastella (1819-1899), ne “Le parità e le storie morali dei nostri villani (1884).

 

Un nomignolo popolare viene affibbiato allo specifico testo attribuito a Rutilio Benincasa, familiarmente da tutti chiamato  Rutiliu o Rutilia, al femminile identificando in questo modo autore e opera. Aumentando una tale confusione, si applica agli annuari in genere un’intenzione che non avrebbero in partenza, cosicché si mette in commercio un suggestivo “L’Astrologo, almanacco di Rutilia Benincasa nata Fanfaricchio nell’anno bisestile 1856. Contenente il Calendario dei Santi di tutti i mesi…”.

 

Eppure, sia per morfologia sia per contenuti, l’opera del cosentino fa parte a tutti gli effetti della grande tradizione rinascimentale di registri e lunari popolari, assieme a quelli di Regiomontanus o di Nostradamus. Scritto nel 1587 dal suo sedicente autore, nato trentadue anni prima in Calabria, a Torzano (in dialetto Turzanu, oggi Borgo Partenope, frazione di Cosenza), e stampato a Napoli nel 1593, presso Giovanni Iacopo Carlino e Paci, per via della giovane età e dell’eccezionale pregio dei calcoli astronomici e delle cognizioni pratiche, in esso contenuti, ha fatto ventilare al canonico Antonio (o Antonino) Mongitore (1663-1743) l’ipotesi, esposta nella “Bibliotheca sicula” (sive de scriptoribus siculis qui tum vetera, tum recentiora saecula illustrarunt, notitiae locupletissimae, Palermo 1714) che potesse invece trattarsi del minuzioso lavoro del celebre filosofo, astronomo e poeta Sebastiano Ansalone, nobile  palermitano, dei baroni di Piltineo (Pettineo) e Castell'izzo (Castelluccio), morto cieco nel 1599, il quale volle occultarsi dietro il nome di qualcuno, che si trovava al suo servizio, ma comunque ignorante di scienze matematiche. Altri, al contrario, sostengono che proprio questa contraddizione tra rozza e scorretta scrittura in latino e pervicace precisione scientifica avvalori la teoria che a scriverlo sia stato un autodidatta.

 

Tanto vuol dire Mese, quanto misura d’anno, e gli antichi lo chiamano Lunata, come oggi lo chiamano i Pagani i quali non hanno numero d’anno giusto, ma dicono una Lunata, due Lunate, e via discorrendo, e in questo modo fanno in dodici lune un Anno, ma noi lo chiamiamo Mese, cioè misura di un Anno, e per levare, che non dicano mezz’Anno, né terzo, né quarto d’Anno, trovarono, che si dica, tre, quattro, e sei mesi” (Trattato IV. Dell’Appart. Dell’Anno. Cap. V: Che cosa sia un mese).

 

Anche in virtù dell’attribuzione di questa fortunatissima opera,  Rutilio Benincasa (1555-1626) divenne, una figura del tutto leggendaria, ai limiti con la mitologia del prototipo stregonesco. Salvatore Spiriti (1712-1776) e Letterio Di Francia (1877-1940) non elargiscono che scarne notizie biografiche e la voce popolare secondo cui, avendo partecipato alla congiura antispagnola fomentata da Tommaso Campanella, sarebbe stato costretto da quel fallimento all’assoluta clandestinità.

 

Il suo libro, o Almanacco perpetuo, viene in seguito rimaneggiato da Ottavio Beltrano di Terranova (di Calabria Citra), tipografo in Napoli (via San Biagio dei Librai), Sorrento, Ancona, nonché scrittore di una più volte ristampata guida, tipo Baedeker (“Breve descrittione del Regno di Napoli diuiso in dodeci Prouincie nella quale con breuità si tratta della città di Napoli e delle cose più notabili di essa). Questi diede un notevole contributo a fissarne la struttura definitiva di eterno annuario (“Almanacco perpetuo di Rutilio Benincasa cosentino, illustrato, e diuiso in cinque parti, da Ottauio Beltrano di Terranoua di Calabria Citra, ecc. con due copiosissime tauole di tutto quello che si contiene nel presente Almanacco”, Venetia: appresso Nicolo Pezzana, 1665), comprendente tutto il classico corredo dei coevi elaborati dello stesso genere: effemeridi e calcoli astronomici, tavole numeriche e segni zodiacali, lunazioni ed effetti su venti e maree, bollettino del mare e consigli per i naviganti, e per gli agricoltori, elementi di aritmetica e gematria, pronostici di tipo divinatorio cabalistico  e liste di “cose notabili” accadute. Il successo editoriale, legato alla fama dell’infallibilità di un tale armamentario per la predizione degli eventi, entra prepotentemente e a pieno titolo, proprio per questa sua caratteristica, nella tradizione magico-cabalistica del gioco, ancora però in maniera mitica più che pragmatica, da vero e proprio strumento di applicazione.

 

Quella del Benincasa era una piccola enciclopedia, per allora valida, su curiosità zodiacali, astri, corpi e fenomeni celesti, quali le eclissi, ma soprattutto una particolare concezione ciclica del tempo, che prende il nome dall’astronomo greco Metone, basata sull'osservazione che diciannove anni solari corrispondono abbastanza approssimativamente a 235 mesi lunari, per cui anche gli eventi e i numeri si rincorrerebbero con tale periodicità. Una volta estratta una cifra, ad essa fa seguito di conseguenza una serie “attraente” di numeri “portatori”. Per molti accaniti giocatori il “vero” Rutilio equivaleva alla scienza di predire certi risultati e di giovarsene.

 

Di quest’importantissima regola di magia simpatica, impregnata di similitudini numeriche, in una loro prevedibile successione sequenziale, si interessò un astronomo, fisico e cabalista veneziano, Giampietro Casamia, autore de “Il Giro astronomico” e “Il Gran Tesoro nascosto”.

 

Per formare questa operazione, cioè per avere il vero numero simpatico mensile, conviene in primo luogo sapere quanti giorni abbia la Luna in quel primo dì del mese per cui si vorrà operare. In questo nostro dato esempio, noi opereremo per avere il numero simpatico per il mese di giugno 1784, e vedremo nel corso lunare del mio giro astrologico, che tra i computi di calcolo, credo il più probabile noi vedremo avvenire giorni tredici di Luna nel primo giorno di giugno, ciò certificati, noi ricorreremo alle tavole algebrate, di due luminari, cioè il Sole e della Luna; prendendo in primo quello del Sole, ci porteremo al 13° grado, ove è calcolata per gradi 30, che significano i gradi mensili, e quindi a questo 13° grado, indicante i giorni del corso lunare, noi vi troveremo di confronto i tre numeri 79 12 e 86, e con questi tre numeri noi formeremo una piramide, con gettare fuori al solito in arte cabalistica fuori 9, come segue: Il primo numero, 79, produce 7+9=16 che equivale a 1+6=7. La seconda cifra del 79, il 9, si somma con la prima cifra del secondo numero, il 12, e così facendo 9+1=10 che equivale a 1+0=1 e via di seguito".

 

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Successivamente reimpostato dagli autori ottocenteschi impregnati di romanticismo, il Libro dell’Arte si ripropose nei manuali che sono giunti sino a noi, quasi come una sorta di sommatoria delle diverse trasmissioni confluite in un contesto apparentemente autonomo e isolato: “La giuocatrice di Lotto – sia Memorie di Madama Tolot scritte da lei medesima, colle regole con cui fece al lotto una fortuna considerabile, e pubblicate dall’abate Pietro Chiari poeta di S. A. S., il sig. duca di Modena, presso Filippo Carmignani, Parma 1766”; “Etoile du bonheur. La stella della fortuna in Nuovo almanacco della stella ossia la chiave d'oro” (Appiano, Torino 1814); “Il passatempo ossia l'almanacco dei faceti” (Francesco Binelli e Figli, Torino 1818); “Nota alfabetica dei nomi coi loro numeri e tavola illustrata della cabala” all’Almanacco “La vera ed antica borsa d'oro” (Luigi Baratta, Torino 1824); “La specula dei pronostici antichi e moderni” (altro almanacco edito da Luigi Baratta, Torino, nel 1826); “Nuova smorfia del giuoco del Lotto di Giuseppe Romeo Di Luca” (Gaetano Elibon, Napoli 1878); “Il vero libro dei sogni, ossia l’eco della fortuna, nuova edizione composta sul sistema rutiliano” (Adriano Salani, Firenze 1884); “La vera spiegazione numerica dei Sogni, quarta edizione palermitana fatta su quella del 1852 ed ulteriori edizioni, migliorata e notabilmente accresciuta” (Pedone Lauriel, Palermo 1886); “Il vero libro dei Sogni, ossia l’albergo della fortuna, aperto ai giuocatori del Lotto. Edizione eseguita sulla famosa cabala di Gerolamo Capacelli” (Bietti, Milano s. d.).

 

Giuseppe Romeo Di Luca non trascura le Tavole dei simpatici e la Cabala novilunare di Rutilio Benincasa, ma tratta anche della Tavola perpetua di Enrico Cornelio Agrippa, delle "Tavole delle Triple”, espone le “celebri” regole di Zoroastro e Pico della Mirandola, fornisce la spiegazione della figura Pentagona, dei sogni  e della Smorfia romana e quella fiorentina, “figurate”. In esse le differenze regionali sono evidenti nel collocare, per esempio, il Sole al numero 1 in Toscana, come a Genova, e al 2, nel Lazio, dopo il Mondo.

 

Altri, è il caso di Pietro Pompilio Rodotà (1769), nel valutare la ricerca di distillare alchemicamente simpatie per il mese o per l’anno, o nell’analisi della consultazione di chiavi responsive e di calcoli di numeri d’oro o dell’epatta, gli epaktai hemèrai “aggiunti” al calendario, avvertono come un’alternativa cabalistica “che interamente si tesse colle combinazioni de’ giorni, lunazioni e numeri simpatici,” sia “priva di forza e di virtù di produrre, e di significare il numero futuro, che si toglie a piacere. L’estraente non è violentato né da alcun pianeta, né da verun agente di prendere una palla piuttosto che un’altra”. Eppure Renzo De Felice (1929- 1996), ricorda che dal processo intentato, perché massone,  a Ottavio Cappelli, un esponente di spicco dell’illuminismo mistico romano  tardo settecentesco, risultò che anch’egli ricorreva alle arti cabalistiche per “dare i numeri”.

 

Le smorfie figurate non possono ovviamente che essere riduttive rispetto ai dizionari scritti con maggiore scrupolo di completezza, in quanto costrette a limitarsi al novero di novanta icone e dunque, all’interno di un vastissimo campo di significati che un numero può polisemicamente condensare, si riducono ad assegnarne soltanto uno, in base alla tradizione localmente prevalente.

 

"Una prima forma letteraria, rudimentale, analfabeta, fondata sulla tradizione orale come certe fiabe e certe leggende. Tutti i napoletani che non sanno leggere, vecchi, bimbi, donne... conoscono la smorfia, ossia la Chiave dei sogni a memoria, e ne fanno speditamente l'applicazione a qualunque sogno o a qualunque cosa della vita reale" (Matilde Serao: “Il ventre di Napoli”, 1884)

 

Di contro all’immagine cristallizzata e ferma nel suo significato numerico, la sezione dizionaristica scompone ogni accadimento, onirico o reale, in termini grammaticali, che l’interpretazione affronta poi nella sua completezza sintattica, di predicati verbali che vanno a intrecciare complementi. L’onirocritica artemidorea tende a sconfinare nell’analisi linguistica di modi di dire metaforici e l’interpretazione in genere punta alla concatenazione degli eventi, piuttosto che su semplici contenuti singoli, siano essi persone, cose, attività. E se ogni numero ha un campo molto vasto di significati, alcuni ne possiedono di talmente radicati nella tradizione popolare da detenere per vari motivi posizioni di spicco rispetto a tutti quanti gli altri: è il caso del 22 il matto, 37 il monaco, 39 l’impiccato, 46 i denari, “morto che parla” 47, 'o scartellato 57, 'o cacciatore 61, 'a sposa 63, 'a maraviglia 72, 'e Riavule 77, e “la paura”… fa 90. Nella cabala ebraica corrisponde alla giustizia e all'umiltà, ma in questo contesto diviene l'ultimo numero del gioco e rappresenta la fine di un ciclo e la speranza in una vita futura, simbolo apocalittico, ascendente, detentore di spiritualità, e “remedium … utriusque fortunae”, tanto per ricorrere alla terminologia dei dialoghi petrarcheschi.

 

L’anancasmo interpretativo dilata l’universo delle contingenze “smorfiabili”, coinvolgendo inconsapevoli portatori di senso, identificabili in determinate categorie di persone, le cui azioni mostrano significati: monaci, frati, “assistiti”, “polacchi”, ecc. Ogni cosa di quello che facciano o dicano questi detentori immaginari del dono di indovinare i numeri al lotto diventa motivo di correlazione cifrata.

 

Primo Arena in una “cicalata” del 1829, riportata da Giuseppe Pitré sessant’anni più tardi, descrive l’Eremita: "Ora si tocca il naso, or stringevi le mani / Or si tocca la fronte, ora vi da il tabacco/ Or nomina le guerre, e un soldatesco attacco / Ora la bocca v'apre, or ride, or e in angoscia, / Ora le palme stende, or battesi la coscia; E in tante misteriose parole e segni varj / Si ricorre alla smorfia ed alli calendarj" (Biblioteca delle Tradizioni Popolari Siciliane, XVII, 291).

 

Cabalismo e polacchismo tendono a confondersi e l’ispirazione che parla a “nimmi” sibillini di assistiti e polacchi si trasforma in un continuo studio della “riegula” da parte di sfaccendati al solo scopo di prevedere gli estratti, un fenomeno socioculturale “di margine”, alla stessa stregua della jettatura. Nel caso della smorfia e della cartomanzia, il vaticinio non si presta a mutevolezze, inganni, incertezze, precarietà, poiché il lessico dell’invenzione è prestabilito e i geroglifici identificati e immutabili di numero finito. La sorte interviene per designarli e la decifrazione è degna di una prognosi scientificamente in grado di riunire le condizioni della congettura per ottenere le giuste modalità dell’immaginazione.

 

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Il “popolarismo romantico” ha investito in pieno il libro dei sogni senza sottrarlo all’oscillazione tra l’esaltazione poetica sognante e ingenua dell’aspetto folkloristico e, di contro, la dura condanna delle fole e dei pregiudizi che da quella si dipartono. Il sonetto del Belli (1791-1863) “Devozzione pe vvince ar lotto” (1830) descrive la superstiziosa soteria di un immaginario apotropaico: “Rinega Ggiuda/ Iggni quindisci passi; e ar deto grosso/ de manimanca tié attaccato un osso// de gatto rosso…”.

 

Nel 1884, Matilde Serao (1856-1927), nel Ventre di Napoli, parafrasando quasi “l'oppio dei popoli” di Bruno Bauer (1809-1882), erroneamente attribuito a Marx (“La religione è il singhiozzo di una creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, lo spirito di una condizione priva di spirito...), scriveva: “Il popolo napoletano, che è sobrio, non si corrompe per l’acquavite, non muore di delirium tremens; esso si corrompe e muore pel lotto. Il lotto è l’acquavite di Napoli!è l’idea fissa di quei cervelli infuocati; è la grande visione felice che appaga la gente oppressa; è la vasta allucinazione che si prende le anime.

 

Introdotto a Napoli nel 1682, il lotto, si era profondamente radicato nella città che ospita la statua del Nilo in ricordo della colonia alessandrina, suscitando tra i più poveri magiche speranze ed entusiasmi alimentati dal miraggio di un facile arricchimento in grado di permettere d’emblée di superare angosce e pene d’una vita di stenti. Ne"Il Paese di Cuccagna" (1890) s’immerge nel gergo delle suggestioni superstiziose, inserendo nella sua scrittura: assistito, postiere, situato, storni, serragliuolo, bonafficiata, terno della Madonna…

 

La letteratura sette-ottocentesca si dedica a questa “attualità”, alternando l’interesse surrealistico a quello scientista. Da Casanova a Giusti, e da Balzac fino a Benedetto Croce. Se ne occupa il poeta e drammaturgo Giovanni Emauele Bidera nella “Passeggiata per Napoli e contorni “ (1844) e il viaggiatore e scrittore Karl August Mayer (1808–1894), che con altrettanto interesse e curiosità osservò la danza delle spade (‘ndrezzata) di Buonopane (Barano d’Ischia). Etnografi e demologi, quali Pitré, Pigorini-Beri, Serafino A. Guastella, indagano il fenomeno da un punto di vista strettamente socioculturale. Ma la sua diffusione è tale che in una certa qualche prospettiva potrebbe esser valida la supposizione che l’istituto del Lotto abbia fornito un suo particolare contributo all’unificazione italiana perfino ancor prima che da essa nascesse una nazione. Considerando la funzionale capillarità nel Regno delle Due Sicilie, nello Stato Pontificio, come anche in Piemonte, il gioco costituiva parte integrante delle entrate previste dal bilancio, tanto da avvertire ben presto l’esigenza di stabilire un’unica regolamentazione che superasse le difformità caratteristiche delle singole regioni. Un Regio Editto, nel 1864, riconobbe 6 possibili “ruote” (Firenze, Milano, Napoli, Palermo, Torino e Venezia) su cui effettuare le giocate di ambo, terno e quaterna. Nel 1871 si aggiunge Roma, e il 2 maggio 1874 anche un’ottava città, o ruota, Bari.

 
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L’oniromanzia, venga o meno fatta rientrare nella categoria delle “istituzioni”, secondo la concezione di Siegfried Frederick Nadel (1903-1956), in quanto legata  a un codice dapprima orale e dopo anche scritto e ratificato interindividualmente, divenne pratica di gruppo. Le “funzioni vitali del sogno” di Roger Bastide, nel senso delle possibilità di interrogarsi sul significato di esso, non si sono limitate al singolo e neppure appaiono sempre relegate nell’ambito dei comportamenti psicopatologici. Anche nelle nostre società occidentali postindustriali permangono pubbliche forme di riconoscimento, e sfruttamento, di credenze superstiziose.

 

In “Les Jeux et les hommes: le masque et le vertige” (1958), Roger Caillois (1913-1978) ha studiato il caso del “jogo do Bicho” brasiliano. Cento numeri, a gruppi di quattro, si ritrovano sotto il segno di un animale su cui puntare, come sulle possibili combinazioni tra le cifre rappresentate da un determinato simbolo. Si tratta quindi di un’analoga lotteria “culturale”relativa a figure zoologiche corrispondenti a serie raggruppate. Il collegamento con l’oniromanzia è procurato dal suggerimento riguardante l’animale su cui puntare, ottenuto dalla consultazione di un apposito manuale di “Interpretação dos sonhos para o jogo do Bicho”.

 

La classica ripartizione della tipologia dei giochi, per Caillois, si basa sui “quattro atteggiamenti fondamentali” (Agôn, alea, mimicry, ilinx) che li presiedono. Se gli scacchi possono considerarsi un gioco “agonistico”, perché impostato sulla leale concorrenza tra avversari, come un combattimento in cui le pari opportunità vanno rispettate affinché il confronto si mantenga in condizioni ideali, il gioco di ruolo immaginativo, simulazione e finzione di immedesimarsi in un personaggio, rientrano nel “mimetismo” (mimicry), mentre ogni estasiata situazione di entusiasmo, tale da interrompere la stabilità della percezione e, quasi una vertigine, coinvolgere in una sorta di voluttuoso panico è appunto dominio del vortice (ilinx). Il nome latino dei dadi (Alea) rivela invece i favori del destino, fornendo delle opportunità innovative che l’attitudine all’iniziativa del singolo deve ricercare. A dispetto della definizione di Johan Huizinga, in “Homo Ludens: A Study of the Play-Element in Culture” (1938): “It is an activity connected with no material interest, and no profit can be gained by it”, in tale tipologia, l’attività ludica è strettamente legata a profitto e interessi materiali.

 

Il “caso” del Bicho e del Lotto, insomma, è ciò che più sollecita le istanze fataliste del giocatore, a dimostrazione di una spiegazione che viene analizzata in chiave di primitivismo “residuale”, ossia quale sopravvivenza di elementi magico-arcaici dietro una facciata occidentale, razionale, istituzionalizzata in forma moderna. Chi sfida periodicamente la sorte con pervicace insistenza, secondo un comportamento anancastico, si richiama in fondo all’antico tema dell’avvento, con quello stesso atteggiamento millenaristico inseguito dalle profezie di imminente rinnovamento delle condizioni esistenziali, e da qui la congeniale collocazione della Tombola nel corso delle festività di fine anno, fine di un ciclo.

 

La Smorfia trasforma il gioco del lotto in una ricerca, non certo passiva, di tentativo di fare fortuna, perché alla costruzione della sequenza numerica si partecipa attivamente, attraverso un’oculata interpretazione di eventi reali o immaginifici, onirici o d’indagine divinatoria, al fine di operare delle esatte corrispondenze che possano essere contemporaneamente e obiettivamente condivise con altri. L’essenza ludica possiede una sua ideologia impostata sul raffronto possibile e veritiero con i segni prodotti da sogni e ottenuti da una tecnica precisa che può trovare paragoni soltanto con le discipline mantiche della cartomanzia. La verità trascritta nel libro segreto della natura, del mondo e della vita, va letta e interpretata ed eventualmente persino corretta secondo criteri tradizionali dall’indubbia icasticità. Siamo di fronte a quella stessa dimensione mitica e magica di cui ci riferisce l’etnografia con l’intenzione di razionalizzare quei rapporti imperscrutabili che si vengono a stabilire con il destino.

 

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Ascendenze remote verrebbero riconosciute pure allo spagnolo Biribiss (Biribisso, Birbissi, biribìribì o Biribì) da una sorta di “dama” assira sulla quale, mentre si svolgeva la competizione a due, erano consentite le scommesse degli spettatori. Il tabellone, simile a uno scacchiere, conta 32, 36 (in Francia 64, 70) caselle su cui puntare. Ogni immagine inquadratavi era contrassegnata da un numero: 29 un orso che suona l'organetto, 35 il cesto di ciliegie, e così via. Nel suo poema eroicomico in ottave, intitolato "La presa di San Miniato" (1764), ove mette in campo  un esercito composto sia da fanti che da capre,  Ippolito Neri (1652-1708) descrive la figura del biribissaio o bagattelliere, per certi versi non dissimile dal Bagatto o Bateleur, Le Joueur de Gobelets. "Consumano il tempo intorno al Giuoco. Sempre avendo a rubare il pensiero fisso. Con le carte d'alzata e il Biribisso" (3,42).

 

Forse proprio a quest’incrocio si scorge l’incontro possibile tra Tavole rutiliane, Smorfia, o Libro dell’Arte, o come altro lo si voglia chiamare, e Tarocchi, occidentali o meridionali, siculi, bolognesi o minchiate che siano, magari per il tramite di un Lotho del ponte di Rialto o di un Biribissi non ancora strutturato in “Mercante in fiera”, oppure in una sorta di Tombola con le carte.

 

Le più celebri testimonianze dell'esistenza del gioco del Mercante in fiera si possono  rintracciare in Carlo Goldoni quando lo cita ne "La Casa Nova", del 1760; Wolfgang Amadeus Mozart ne parla in una lettera inviata alla sorella Nannaerl nel 1772. Nel 1832, il Mercante in fiera viene esposto nel "Trattato teorico-pratico dei giuochi tressette, écarté, mercante in fiera e giacchetto", stampato a Macerata, presso Mancini-Cortesi, dove gli si attribuisce un'origine italiana. Ne "Le confessioni di un ottuagenario" (1867), Ippolito Nievo scrisse del tressette che, con un paio di tavolini, bastava per divertirsi, ma che comunque, nel momento di maggior compagnia, si imbandiva la grande tavola per dar avvio a Mercante in fiera, Tombola, Sette e mezzo. Presentandosi come delle vere e proprie piccole opere d'arte stampate, le medesime produzioni di mazzi da Mercante in fiera, sin dalla fine del XIX secolo, divengono oggetto di collezione. Sulle raffigurazioni impresse sulle carte si imbastiscono presto delle associazioni superstiziose, a seconda delle  differenti sensazioni che provocano in ognuno dei partecipanti e c'è chi pensa che avere determinate immagini, come il "Maresciallo", per esempio,  fra le proprie carte non sia di buon augurio. Del resto, i giochi con valenza predittiva si giocano prevalentemente a ridosso del transito tra l’anno vecchio e il nuovo, come rito di passaggio.

 

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Ogni gioco, infatti, e soprattutto un gioco di carte, si presenta necessariamente come una totalità: - sostiene Roger Caillois - una serie di elementi costanti ai quali non si può togliere nulla, e che non è possibile modificare”. Pertanto , l’uso a scopo divinatorio del gioco di carte potrebbe sembrare contraddittorio, almeno quanto paradossale sarebbe applicare l’elemento onirico alla puntata del lotto. I casi possibili dell’illimitatezza, in entrambi i casi devono farsi contenere entro i ristretti confini di combinazioni i cui significati sono rivendicati dalla tradizione. Le carte cifrate, da un lato, oppure i sogni tradotti in numeri dall’altro, rappresentano una garanzia per la correttezza nello svolgimento ludico e la più attendibile interpretazione predittiva. L’enigma, seppur non rivelato, è sempre sentenza valida a tutti gli effetti. Il codice riconoscibile l’accredita nel fraintendimento, e nel distacco dalle attese, perché a discostarsi semmai sarà l’elemento umano intervenuto nel pronostico più che l’imponderabilità dell’eterno infinito universale. La restrizione deve ricondurre la moltitudine caotica allo standard ordinato dell’ordinario prevedibile: l’inevitabile, quindi, innanzitutto, la morte, salute e benessere, l’incombente rovina o l’auspicabile successo, un viaggio, o un incontro inatteso, l’amore inseguito, il tradimento sospettato. L’imbuto ludico-divinatorio costringe l’innumerevole confuso al repertorio scarno, ma chiaro, dei punti fermi, scontati, riassunti nelle dodici case zodiacali. Questi pochi segni possono combinarsi tra loro in molti modi, appunto come i pianeti nelle costellazioni dell’astrologia. I pianeti possono così essere indifferentemente sette o nove, le carte trentadue o settantotto, le tavole novanta, novantasei o trecentosessantacinque, purché l’incommensurabilità delle situazioni che la condizione umana comporta sia contenuta nel loro insieme riassuntivo e conchiuso. Una conclusione visionaria dunque che contribuisce a conferire completezza al sistema autoreferenziale. L’improbabile mostra corrispondenze misteriose con una complessità dai dubbi collegamenti che vanno estendendosi alla ridondanza di una creatività in grado di inventarne degli altri, di nuovi o di remoti.

 

Ci sono in realtà due storie: - scrive in nota a “I tarocchi di Dummett”, Carlo Penco, in Rossi P. A. e Li Vigni I. (a cura di): “Il Ludus Triumphorum o Tarot: carte da gioco o alfabeto del destino” (Nova Scripta, Genova 2011) - quella delle carte e quella dei giochi con esse praticati – Dummett dà molta importanza a questo fatto. Ovviamente le due storie sono intrecciate, dato che i diversi tipi di giochi sono legati a diversi tipi di carte; ma il ruolo di certe carte nel gioco dipende dalle regole del gioco e non dalla forma o figura delle carte”, le quali però, bisognerebbe aggiungere, possono sempre acquistare, come hanno di fatto assunto, un valore iconico autonomo e del tutto indipendente dal resto, pure ripristinando ancestrali corrispondenze numeriche nell’elaborazione di tavole da “scartellare”.

 

Le carte occidentali al loro primo apparire sembrano più simili alle trenta tavolette d’avorio del gioco cinese “mille volte diecimila”, in cui la somma dei segni enciclopedicamente riassume, nel proprio microcosmo, il numero delle stelle dell’intero universo. Naibi o promemoria di cognizioni da ricordare nelle varie condizioni di vita da evitare o da ricercare, come può accadere con il movimento avverso o propizio della ruota di fortuna.

 

Alla fine del secolo XVI, - ci informa Roger Caillois - circa cinquant’anni dopo il riferimento ai giochi inviati da Baber allo Scià Hassan, Abul Fazl Allami descrive un gioco di 144 carte, dodici serie di dodici carte. Abkar le ridusse a 96, cioè a otto serie”. Questo gioco di 96 carte si pensa sia un adattamento islamico del gioco indiano Dasavatara che illustra le incarnazioni di Vishnù (Krishna, Rama, Narasimba, ecc) ripetute per una dozzina di volte. Tali incarnazioni, o "discese" (avatara), secondo la tradizione possono essere quattro, sei, dieci, ventidue o teoricamente infinite. Le canoniche dieci si elencano in pesce (Matsya), tartaruga (Kurma), cinghiale (Varaha), Narasimha (uomo-leone), Vamana (nano), Parashurama (Rama con l'ascia), Rama, Krishna, Buddha e Kalki (l'incarnazione ventura). In proporzione al loro valore, gli emblemi degli avatar si ripetono nelle carte numerali in altrettanti pesci, tartarughe, conchiglie, dischi, fiori di loto, brocche, asce, archi, bastoni, sciabole, in cui si possono intravvedere i prototipi dei semi tradizionali di (evidenti) bastoni, spade lievemente ricurve (sciabole), coppe (brocche), denari (dischi). La presenza di altre figure animali, quali elefanti, scimmie, vacche, cavalli, leoni, nagas, oppure umane con scene di discussione tra donne, spettacoli, giochi, vita di corte, pratiche religiose, ecc. le rende paragonabili in parte al mazzo del mercante in fiera e, in un’amplificazione non estrema, alle situazioni esposte nella smorfia delle tabelle della Tombola.

 

 

Bibliografia essenziale

 

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