Saggi Storici sui Tarocchi di Andrea Vitali

Saggi dei Soci e Saggi Ospiti

Tarocchi e Neoplatonismo

Le radici neoplatoniche dei tarocchi

 

di Loris Solmi


Una delle cose che mi colpisce maggiormente ogni volta che leggo un testo sui tarocchi è vedere come, arrivato all’analisi del VII arcano, il Carro, l’autore non citi mai, o quasi, il mito del carro alato che Platone narra nel Fedro, additandolo come l’esemplificazione perfetta dell’anima umana. 


(Fedro 246)   “Pensiamo dunque che l’anima assomigli a una forza per sua natura composta di un carro alato a due cavalli e di un auriga. I cavalli e gli aurighi degli dei sono tutti buoni e discendono da buoni, invece quelli degli altri (gli uomini) sono misti. In primo luogo in noi l’auriga guida un carro a due cavalli, inoltre tra i due cavalli uno è bello e buono (bianco) e discende da belli e buoni; l’altro, invece, deriva da opposti ed è opposto (nero). Difficile e disagevole quindi, per quel che ci riguarda, è la guida del carro.”

 

Anche quando succede che l’autore faccia riferimento a questo mito, lo fa en passant, non dando ad esso alcun risalto particolare ma citandolo solamente come una fra le tante possibili fonti iconografiche, in una rassegna in cui molte delle citazioni sono spesso fatte più a sproposito che a proposito. Essendo l’immagine platonica, giusto a meno delle ali, una rappresentazione non approssimativa ma perfetta del VII arcano, è lecito chiedersi come mai essa non venga riconosciuta come tale, e l’unica risposta che può essere data è l’incapacità di collegare questo simbolo della filosofia platonica con gli altri arcani e soprattutto di giustificarne la posizione nella successione degli arcani maggiori.

 

Per tentare di risolvere questo enigma cominciamo col dire che il dialogo platonico del Fedro si occupa di un argomento ben preciso che è l’amore, e per l’esattezza di un amore non volgare ma filosofico, che dalla cultura accademica ottocentesca è trasudato fino a quella popolare ed è a tutti noto come “amor platonico”. Ma se a tutti è nota l’espressione, meno nota né la reale comprensione del significato platonico o neoplatonico dell’amore, al di là di quello che gli è stato attribuito in ambito strettamente accademico. E giacché dal VII arcano siamo passati per connessione logica abbastanza pertinente, mi pare, al tema dell’amor platonico, notiamo che l’arcano che precede immediatamente il Carro è, guarda caso il VI, quello degli amanti, di modo che comincia già a manifestarsi la relazione che stiamo cercando, ovvero un nesso forte fra la tradizione neoplatonica e il mazzo dei tarocchi.

 

Attenzione perché il legame è di fatto più stretto di quanto non appaia a prima vista, se è vero come è vero che nel Fedro Platone ci dice che l’anima del filosofo può mettere salire a contemplare il mondo iperuranio come trasportata su un carro alato se si affida alla più potente di tutte le forze: l’amore, purché non si tratti dell’amore ordinario ma di un amore tutto speciale. Esso deve essere cercato per tempo, scegliendolo rispetto a quello ordinario, e deve poi essere sapientemente coltivato per essere messo in grado di esaltare enormemente le facoltà latenti dell’anima, a cominciare dalle virtù conoscitive.

 

Per Platone l’amore a cui egli allude avrebbe la virtù di porre l’anima in uno stato di esaltazione, di mania, di furore o di entusiasmo se vogliamo utilizzare un sinonimo dei termini precedenti molto caro a Platone, i quali indicano tutti l’agire del dio dentro di noi; enthousiasmos è letteralmente l’essere invasato o ispirato dal dio.

 

È noto che per gli antichi l’amore era veramente tale e non semplicemente passione, solo quando dava all’innamorato un primo e vago sentore di estasi. Ecco perché prima dell’arcano del Carro è posto quello degli amanti, che come tutti sanno non rappresenta solo l’amore tout court, ma anche il fatto che mai come in amore l’anima si trova spesso anche se non sempre di fronte ad un bivio, ad una scelta: l’ardore della carne o le ragioni del cuore? A questo allude infatti chiarissimamente la carta raffigurando un uomo posto in mezzo a due donne diversamente vestite ed adornate, e sopra l’uomo è posto Eros o Cupido pronto a scoccare su di lui una delle sue micidiali seppur dolcissime frecce, che lo faranno innamorare seguendo il cervello e la passione, oppure seguendo il cuore.


Va da sé che se e solo se la scelta sarà quella giusta, l’anima potrà mettere le ali e salire su un carro alato che, come nella mistica ebraica della Merkavah, la porterà a contemplare le sfere più alte del regno delle cause, e dunque proseguire l’iter proposto dagli arcani maggiori; altrimenti il viaggio filosofico si ferma e per sapere ciò che accadrà dopo non vi è alcun bisogno del mazzo dei tarocchi.


Non è né un caso né un mistero che il sesto arcano alluda anche al mito di Ercole al bivio, ad indicare la scelte radicale che deve essere fatta al momento giusto. Al paragrafo 264 del Fedro Platone ci spiega infatti che se la mente ordinaria è lo strumento perfetto per indagare la natura, ovvero il mondo degli effetti, è solo ponendo l’anima in una condizione estatica, e in quanto tale straordinaria, che si può giungere a conoscere il mondo iperuranio o mondo delle cause. Inutile quindi pretendere di raggiungere la conoscenza delle cose ultime se si procede lungo la via ordinaria.

 

È per questo motivo dunque che sempre nel Fedro Platone distingue due forme di mania o entusiasmo: uno patologico che corrisponde alla massima degenerazione dell’amore passionale, e uno divino che corrisponde alla massima esaltazione dell’amor platonico, ovvero all’applicazione sapiente di quanto anticamente veniva insegnato sia nelle sedi dei misteri che in alcune scuole filosofiche. 

 

Scrive infatti Platone nel Fedro che quattro sono le modalità con cui l’anima può essere condotta all’estasi, ma che la modalità amorosa, o erotica che dir si voglia, è la migliore fra tutte.

 

(Fedro 264 d)  “Socrate. E dicevamo che ci sono due forme di mania: una che deriva da malattie umane, l’altra, invece, che deriva da un divino mutamento radicale delle comuni consuetudini.
Fedro. Certamente.
Socrate. Della divina mania abbiamo distinto quattro parti riferendoci a quattro dei: abbiamo attribuito ad Apollo l’ispirazione mantica, a Dioniso la telestica (cioè legata alla celebrazione dei misteri), alle Muse la poetica, e la quarta ad Afrodite e ad Eros, e abbiamo detto che la mania amorosa è la migliore.” 

 

È celebre in ambito ermetico l’interpretazione che di questi quattro tipi di estasi fece Enrico Cornelio Agrippa nei capitoli da 46 a 49 del terzo libro del suo celebre trattato De Occulta Philosophia, chiarendo che l’estasi delle Muse andava ricondotta alle metodiche e all’uso di determinate sostanze così come era insegnato dalla magia naturale, l’estasi di Apollo alle pratiche della mistica religiosa, l’estasi Dionisiaca alle pratiche più propriamente misteriche ivi compreso l’esercizio della magia cerimoniale, massimamente nella sua forma più alta detta anche magia divina o teurgia, e da ultimo l’estasi di Afrodite o di Eros, riconducibile agli aspetti più misteriosi dell’amore che secondo Agrippa – come secondo Platone e la successiva tradizione neoplatonica – più e meglio delle altre “converte e trasmuta lo spirito umano nella divinità, con l’ardore dell’amore, rendendolo affatto simile a Dio”.

 

Qualcuno potrebbe forse storcere il naso di fronte al tipo di interpretazione avanzata da Agrippa, ma vorrei ricordare che probabilmente non si tratta di farina del suo sacco, essendo egli stato discepolo di uno degli uomini più eruditi di tutto il primo rinascimento, l’abate tedesco Johannes Trithemius, cui molto probabilmente doveva queste conoscenze, che del resto verranno riproposte pochi anni dopo, pressoché immutata, nientemeno che da Giordano Bruno il quale, benché frate, comporrà opere dedicate interamente sia alla magia naturale che a quella cerimoniale e, dulcis in fundo, un’opera intitolata “Gli eroici furori”, la quale tratta né più né meno di ciò di cui ci stiamo occupando, ovvero dell’amor platonico in tutte le sue declinazioni.


Siamo quindi di fronte ad una tradizione che parte da Platone, viene portata avanti  attivamente dalle correnti neoplatoniche giungendo fino al rinascimento, e che nel corso del suo cammino concorre, per le ragioni che vedremo, anche a far nascere quello strumento fantastico che sono i tarocchi. Ma procediamo con ordine.              

Un parte del modo accademico vuole che Plotino sia stato un puro filosofo e basta. Nell’asserire questa cosa, che pure ha un suo fondamento, si dimentica che, come ci racconta  Porfirio al paragrafo X della sua Vita di Plotino, egli acconsentì di buon grado di partecipare ad una evocazione teurgia del suo genio personale.

 

Un sacerdote egiziano, venuto a Roma e presentato a lui da un amico, volendo dar prova della sua sapienza, si offerse di rendergli visibile, mediante evocazione, l’innato daimon che l’assisteva. Plotino acconsentì di buon grado, e l’evocazione venne fatta nell’Iseon poiché a detta dell’Egizio in tutta Roma non si trovava altro luogo puro fuorché quello. Sotto i loro occhi il demone fu evocato, ma invece di essere un dai mon, apparve un dio, onde l’Egizio esclamò: beato te Plotino che hai per demone un dio!”

 

Oltre a questa esperienza Porfirio ci dice anche che nel periodo in cui egli restò con Plotino, questi sperimentò per ben quattro volte l’unione estatica con l’Uno, quell’esperienza spirituale totale e definitiva cui gli indiani danno il nome di samadhi, e così come gli indiani la ottengono grazie a ben precise tecniche meditative, è logico supporre che anche a  Plotino sia accaduto lo stesso.

 

Del resto sappiamo bene che i discepoli di Plotino, soprattutto Porfirio, Giambico e Proco, fecero ampio uso di pratiche teurgiche e misteriche, delle quali ci hanno lasciato ampia testimonianza scritta con le loro opere, come il De Mysteris di Giambico, i Manuali Tergici di Proclo e l’Antro delle Ninfe o le Lettere al sacerdote Egiziano Abammone, di Porfirio.

 

Al di là delle inclinazioni personali di Plotino, che possono averlo spinto ad una ascesi mentale rigidissima e quasi del tutto priva di supporti esteriori, sappiamo quindi con assoluta certezza che nella scuola neoplatonica era presente un doppio insegnamento: uno esteriore e preparatorio di natura prettamente teorico-filosofica, ed uno interore ed eminentemente realizzativi volto a far avere al ricercatore, grazie a molteplici modalità, una esperienza diretta del mondo spirituale.


Così come avveniva per la religione classica, nell’antichità anche l’insegnamento impartito in talune scuole filosofiche aveva due aspetti, uno pubblico rivolto a tutti, e uno misterico riservato ad una minoranza degli allievi, e fra gli insegnamenti impartiti a costoro vi erano anche gli aspetti più misteriosi dell’eros.

 

Fu soprattutto questa seconda componente ad essere fortemente penalizzata in seguito all’emanazione dell’editto di Tessalonica, nel 380 d.C., con il quale gli imperatori Graziano, Teodosio I, e Valentiniano II decretarono essere il cristianesimo l’unica religione ufficiale dell’impero e con ciò proibirono tassativamente la celebrazione dei culti pagani. I Decreti Teodosiani nel loro insieme, di cui l’editto di Tessalonica è solo il più celebre, comportarono di fatto l’obbligo di nascondere anche solo l’esistenza della parte esoterica dell’insegnamento filosofico, e nonostante questo dopo una serie di persecuzioni feroci nei confronti di quel che restava dell’eresia pagana, nel 529 fu stabilita addirittura la chiusura della Scuola di Atene da parte dell’imperatore Giustiniano.

 

Non solo l’esoterismo ma nemmeno più la filosofia platonica era insegnabile, il che rese ancor più difficile la trasmissione della parte iniziatica e comportò una esigenza ancora maggiore di occultare l’esoterismo neoplatonico sotto una veste che non avesse più nulla di pagano.


Fin dove possibile il sapere insegnato nelle Accademie neoplatoniche assunse così una forma cristianeggiante, e l’esempio più famoso sono senza dubbio le opere dello pseudo Dionigi Aerofagia, le quali consentirono però a questo insegnamento di sopravvivere grazie al fatto di poter entrare negli unici luoghi di cultura allora esistenti, i monasteri dell’ordine benedettino.


Ovviamente all’ombra di chiostri e monasteri il neoplatonismo non poté sopravvivere che in forma sotterranea, carsica potremmo dire, ma così facendo esso poté giungere sino a noi e portare con sé anche gli aspetti più misteriosi.

 

Per correttezza va detto che una parte della cultura poté sopravvivere anche presso le corti, ma solo in misura assai minore, basti pensare che lo stesso Carlo Magno era pressoché analfabeta, anche perché le biblioteche vere e proprie sopravvissero solo nei monasteri, laddove gli amanuensi non facevano altro che ricopiare le opere classiche salvandole dall’oblio.


Non ci resta che vedere come il neoplatonismo tornò ad uscire dai monasteri e cosa abbia a che fare tutto ciò con i tarocchi.

 

Abbiamo gettato un rapido sguardo sugli arcani del carro e degli amanti, non ci resta che riprendere il filo del discorso puntando decisamente sulla figura iniziale di tutti gli arcani: il Matto. Diciamo subito che esso raffigura perfettamente l’insieme di tutti coloro che concorsero a portare la parte esoterica del neoplatonismo fuori dai monasteri.

 

La figura iniziale di questo processo è quella dei clerici vagantes, cioè quei preti o frati che, spinti dal proprio temperamento e forse ancor più dalle conoscenze che avevano occultamente ricevuto, erano indotti ad evadere dalla disciplina ecclesiastica vigente nei monasteri per andare a vivere e a riversare nel popolo il lievito spirituale che avevano ricevuto.

 

Monaci itineranti dotati di una cospicua preparazione teologica e filosofica, andavano raminghi fra la gente vivendo un’esistenza all’apparenza scapigliata e bohemienne fra taverne, processioni, pellegrinaggi, fiere e mercati.

 

Costoro furono i primi a divenire ioculatores o giullari, figure attestate fin dal V secolo le quali,  fornite di una reale cultura e talvolta persino di un autentico sapere spirituale, provvidero a diffonderlo dopo averlo  rivestito di una forma simbolica atta ad essere raccontata e cantata, per essere più facilmente recepita dalle masse. Compagni di strada di menestrelli e cantori, di cui furono in genere i primi maestri, i clerici vagantes in non rari casi divennero essi stessi giullari di corte, facendosi gli araldi della gaia scienza, un sapere altissimo ancorché rivesto di stracci e di apparente follia.

 

Furono uomini liberi i Jongleurs, e non servitori, dunque da non confondere affatto con i menestrelli di corte, dal latino ministerialis, ministro o amministratore, che erano invece dipendenti fissi e dunque strettamente legati al Principe e alla sua corte.


Sta di fatto che l’abito tipico del giullare di corte è quello stesso che vediamo addosso al Matto dei tarocchi, il quale nella sua disposizione migliore è senza dubbio colui che scherzando e celiando allude alle verità più alte. Il jongleur poteva anche limitarsi a eseguire le canzoni imparate e comprate, ma quando realmente disponeva di una sapienza nata all’ombra dei monasteri componeva da sé le proprie canzoni, diventava allora anche trouvère o troviero, cioè poeta nel senso originario del termine, in quanto inventore e creatore.  Ancora oggi del resto usiamo come sinonimo di avere una buona idea “avere le trovata giusta”.

 

E con ciò siamo giunti esattamente dove volevamo arrivare, poiché questa linea di trasmissione ci porta dritti dritti agli inizi del XII secolo, dove i trouvères, soprattutto in ambito provenzale, per ragioni politiche che è impossibile analizzare in questo momento ma che sono strettamente legate alla natura peculiarissima della contea di Tolosa, dettero origine alla corrente letteraria della poesia trovadorica, il trobar clus, ovvero il poetare in forma chiusa ed arcana, che fu una poesia eminentemente ermetica che ebbe sempre come tema centrale l’amor cortese o amor platonico che dir si voglia.

 

Ciò che in Francia si espresse come poesia trovadorica in Italia ebbe come momento più alto il dolce stil novo e ci diede con Dante uno dei massimi capolavori della letteratura mondiale, la Divina Commedia che, piaccia o no, è il frutto più maturo e più bello della sopravvivenza della filosofia neoplatonica e che molti ermetisti considerano il più completo rituale di iniziazione neoplatonica che ci sia pervenuto dall’antichità.

 

Ancora una volta abbiamo il neofita, rappresentato da Dante, che compie il viaggio iniziatico nei tre regni ultramondani per virtù di amore, a tanto chiamato da Beatrice che incarna Madonna Intelligenza o l’Intelletto d’Amore.

 

Del resto gli studi storici, filosofici e teologici del sacerdote cattolico Robert L. John, morto nel 1981, hanno ormai provato in modo incontrovertibile l’esistenza del sodalizio dei Fedeli d’Amore, una sorta di terz’ordine templare e dimostrato l’appartenenza di Dante ad esso. Tutto questo lo ritroviamo puntualmente arcani maggiori dei tarocchi se li si sa leggere nel modo giusto, ad esempio leggendoli per quinari, preceduti dal Matto e chiusi dal Mondo.

 

Il Matto apre tutta la serie in quanto rappresenta la misteriosa figura dell’iniziatore che introduce il neofita nei misteri di Eros, a cui Platone allude esplicitamente nel Simposio e nel Fedro. L’amore, sembra dire il Matto, è sì una forza istintiva che perennemente ti spinge in avanti come un fosse un animale selvatico che ti insegue per morderti le terga o le gambe secondo dei mazzi, ma se te ne saprai servire potrà invece diventare quella forza cosmica che fisicamente muove il sole e le altre stelle e animicamente può dotare la tua anima di uno splendido paio d’ali e consentirti di salire al paradiso cristiano o al platonico mondo delle idee. Ecco allora spiegata la successione dei primi quattro arcani, seguiti dal quinto che ne è frutto e sintesi.

 

Il Mago non è altro che l’iniziando che aspira a conoscere il regno delle cause e che sa che per poterlo conoscere si deve prima dotare delle virtù indispensabili che sono tradizionalmente rappresentate dalle armi del Mago, espressioni della sua natura attiva. Va da sé che se vuole percorrere la via di amore non può certo essere solo ma avrà bisogno di una compagna, la soror mistica che deve accendere il suo fuoco. Costei è rappresentata dal secondo arcano, la Papessa, carta che allude alla donna che assieme all’uomo cerca l’iniziazione e che a tal fine, assecondando la propria inclinazione naturale, deve sviluppare in sé per prime le qualità passive e ricettive dell’anima. È infatti la donna a fare tradizionalmente da pupilla, termine tutt’altro che casuale perché è grazie a lei che l’uomo può gettare un primo sguardo nei mondi spirituali, e la storia dell’esoterismo è piena di esempi in questo senso che vanno dalla più alta antichità fino al celebre conte di Cagliostro, o a figure ancor più vicine a noi.

 

Se le potestà passive sono le prime a manifestarsi nell’animo femminile, il proseguimento dell’iter iniziatico deve comunque portare la donna a sviluppare in un secondo momento anche le qualità attive, e questo più alto livello di evoluzione femminile è rappresentato dalla carta dell’Imperatrice. A questo punto la donna non è più solo in grado di guardare nei mondi spirituali ma anche di agire efficacemente su di essi, e da qui i suoi attributi regali.

 

Ovviamente all’interno della coppia ermetica la fusione delle due anime è tale l’evoluzione della compagna esercita inevitabilmente un’azione mistagogica, ovvero di trazione verso l’alto, ragion per cui anche nell’uomo si realizzano le condizioni per una ulteriore ascesi, raffigurata perfettamente dalla carta dell’Imperatore. Giunti a questo punto le due anime possono finalmente dar vita ad una vera e propria amalgama che deve restituire ad entrambe la condizione primordiale dell’androginia spirituale, mirabilmente raccontata da Platone nel Simposio e raffigurata emblematicamente nel quinto arcano maggiore, il Papa o per meglio dire lo Ierofante, l’adepto, ovvero colui che ha portato a perfetto compimento il proprio cammino iniziatici, uomo o donna che sia.

 

La raffigurazione ideale di questo schema è data mettendo sopra i numeri 1, 2, 3, 4, e sotto, quasi fosse un comune denominatore, la carta del Papa che è a tutti gli effetti il frutto dello sviluppo dei primi quattro arcani e la loro sintesi.

 

Qui occorre forse spendere alcune parole sul significato spirituale dell’androginia secondo la filosofia platonica e neoplatonica poiché solo essa consente di capire perché l’estasi erotica era considerata superiore alle altre e quindi perché l’amor platonico sia così importante.


La totalità, anche animicamente intesa, non può che essere il risultato della fusione delle due polarità fondamentali dell’essere, quelle stesse che sono alla base della vita e che consentono che la capacità creativa, il più alto attributo della divinità, solo quando le due polarità sono co-presenti e cooperanti. È questa la ragione per cui sia la Bibbia che Platone pongono all’origine degli esseri androgini e la concezione stessa della divinità nelle civiltà più evolute fu sempre di natura androginica. Dio era quindi maschio e femmina contemporaneamente e per questo non aveva bisogno di nessun altro per creare.

 

L’amor platonico era dunque una via mediante la quale le due anime venivano messe in grado di fondersi e di scambiarsi i reciproci attributi, riottenendo ciascuna ciò che andò perduto ab illo tempore. Non si pensi necessariamente alle tecniche sessuali del tanta, poiché quand’anche gli iniziati medievali abbiano adempiuto pratiche del genere, senz’altro lo avranno fatto dopo lunghi periodi di casta ritenzione; non a caso amor platonico è in genere sinonimo di amore castissimo.


Sta di fatto che dopo l’antichità classica, dopo i testi di Platone e dei neoplatonici, la poesia trovadorica in Francia e il dolce stilnovo qui in Italia, hanno perpetuato l’arcano della conoscenza e della pratica dell’estasi amorosa e i tarocchi ne sono testimonianza palese.

 

Dopo la prima cinquina di arcani che alludono in modo evidenti ai soggetti in causa e ai loro ulteriori stati evolutivi fino alla meta ultima, la seconda cinquina entra nello specifico e ci insegna come si fa, per questo comincia con la carta degli amanti, della quale abbiamo già parlato e visto il senso che ormai dovrebbe essere chiaro, così come deve essere chiaro il senso della settima carta che subito la segue: se sai distingue fra l’amore ordinario o quello sacro, hai trovato la forza che può liberare la tua anima dai ceppi della carne e farla ascendere sui piani invisibili come fosse un carro alato. Ciò facendo la tua anima acquisirà finalmente le facoltà necessarie che le servono per intuire dove rivolgersi per compiere il passo successivo che è enigmaticamente indicato dall’VIII arcano, la Giustizia.

 

Nell’impossibilità di parlarne dettagliatamente in questa sede mi limiterò a far notare che la Giustizia stringe in mano spada e bilancia, che nella cristianità saranno presi come emblemi nientemeno che dell’Arcangelo Michele, colui che, come esprime il suo nome scritto in caratteri ebraici è quasi come Dio stringendo nelle mani i segni dell’onnipotenza divina.

 

La terza illustra infatti nello specifico le virtù che possono essere conquistate grazie agli eroici furori, mentre la quarta allude invece alle potestà che volgarmente, e dunque erroneamente o favolosamente, sono attribuite all’iniziato.

 

L’ultima carta, il Mondo, non è che una sintesi riepilogativa del tutto.


Qualcuno a questo punto potrebbe chiedersi come un insieme di simboli volti ad insegnare all’uomo come indiarsi o trasumanarsi possa, per dirla con Dante, prestarsi a diventare responsivo in tutte le circostanze della vita. La risposta è presto detta: perché la via che deve riportare l’uomo al regno delle cause è assolutamente analoga a quella mediante cui Domine Iddio ha creato il mondo, e dunque per strano che possa sembrare comprende in sé tutti gli archetipi della creazione, follia compresa, reale o apparente che sia.  

 

Ciò mi pare un modo pertinente per concludere, poiché non vi è dubbio che i tarocchi, secondo l’uso che se ne fa e la mente di chi li sfoglia, possono essere sia il libro della più sublime saggezza che quello della più inconcludente follia.