Saggi Storici sui Tarocchi di Andrea Vitali

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Una burla del '500

Dove si narra di tre amici, di giochi di carte e d' un che si credette cieco

 

Andrea Vitali, settembre 2013

 

 

Di uno fra gli scherzi più famosi architettati nella Firenze del ‘400 non da persone qualunque, ma addirittura dal Brunelleschi in combutta con Donatello e Giovanni Ruscellai abbiamo scritto altrove 1. Si tratta di una burla narrata nel 1489 da Antonio di Tuccio Manetti, biografo del Brunelleschi, trasferita poi in racconto con il titolo Novella del Grasso Legnaiuolo di solito citata anonima data l’incertezza sulla paternità del Manetti.

 

Un’altra burla messa in atto da alcuni amici intenti al gioco delle carte viene narrata dal Conte Baldassar Castiglione (1478-1529) nel suo Il Cortegiano, composto tra il 1513 e il 1524 ma dato alle stampe solo nel 1528, un trattato su come diventare un vero cortigiano e sui modi da assumere a corte 2.

 

La burla inizia allorché tre amici, giunti in un’osteria, si misero la sera a giocare a carte.

 

Prima di riportare la storia, ci preme far conoscere il pensiero del Castiglione sull’amicizia, ovvero sulla scelta degli amici che ogni buon cortigiano doveva adottare, da cui si apprende un’importante verità e cioè quanto sia vera l’asserzione che di veri amici ne esista uno solo.

 

Trattando infatti dell’amicizia, il buon cortigiano, secondo il Castiglione, avrebbe dovuto astenersi dal frequentare le male (cattive) compagnie, scegliendo al contrario persone che avessero avuto i medesimi suoi interessi, intelligenza e cultura (ingegni conformi). Importante avere un unico amico fedele a cui dare fedeltà (“perchè, come sapete, più difficilmente s'accordano tre instrumenti di musica insieme, che due”) considerando gli altri alla stregua di compagni. I veri amici avrebbero posto il bene e l’onore dell’amico davanti a tutto, sopportando i suoi difetti naturali e correggendo i propri laddove gli venissero ricordati.

 

Da quanto espresso e in riferimento alla burla che andremo a narrare, certamente potremmo affermare come i tre personaggi che la interpretano non fossero in realtà veri amici, poiché uno di loro venne talmente deriso e ridotto in tal dolorosa situazione da giungere addirittura a piangere fortemente. E non ebbe importanza, come evidenzia il Castiglione che “il medesimo burlato si ride di se stesso, vedendosi aver avuto paura di niente” poiché il deriso aveva subito provato una così grande tensione da non riuscìre né a ridere né a parlare. È vero che si trattava di semplici popolani e non di cortigiani, ma ciò che il Castiglione affermò riguardo all’amicizia aveva valore come principio assoluto.

 

Dal Libro Secondo de Il Cortegiano di Baldassar Castiglione

 

Intorno alla scelta degli amici

 

"Un'altra cosa parmi, che dia, e lievi molto la riputazione, e questa è l'elezione degli amici, coi quali si ha da tenere intrìnseca pratica, perchè indubitatamente la ragion vuole che di quelli, che sono con stretta amicizia, ed indissolubil compagnia congiunti, siano ancor le volontà, gli animi, i giudicii, e gl'ingegni conformi. Cosi chi conversa con ignoranti, o mali (1), è tenuto per ignorante, o malo: e per contrario chi conversa con buoni e savii, e discreti, è tenuto per tale; che da natura par che ogni cosa volontieri si congiunga col suo simile. Però gran riguardo credo che si convenga aver nel cominciar queste amicizie; perchè di due stretti amici, chi conosce l'uno, subito immagina, l'altro essere della medesima condizione. Rispose allor M. Pietro Bembo: Del ristringersi in amicizia così unanime, come voi dite, parmi veramente che si debba aver assai riguardo, non solamente per l'acquistar, o perdere la riputazione, ma perchè oggidì pochissimi veri amici si trovano, nè credo che più siano al mondo quei Piladi ed Oresti, Tesei e Peritoi, nè Scipioni e Lelii: anzi non so per qual destino interviene ogni dì, che due amici i quali saranno vivuti in cordialissimo amore molt' anni, pur alfine l'un l'altro in qualche modo s'ingannano, o per malignità, o per invidia, o per leggerezza, o per qualche altra mala causa; e ciascun dà la colpa al compagno di quello; che forse l'uno e l'altro la merita. Però essendo a me intervenuto più d'una volta l'esser ingannato da chi più amava, e da chi sopra ogni altra persona aveva confidenza d'esser amato, ho pensato talor da me a me, che sia ben non fidarsi mai di persona del mondo, nè darsi così in preda ad amico per caro ed amato che sia, che senza riservo l'uomo gli comunichi tutti i suoi pensieri, come farebbe a se stesso; perchè negli animi nostri sono tante latebre, e tanti recessi, che impossibil è che prudenza umana possa conoscer quelle simulazioni che dentro nascose vi sono. Credo adunque che ben sia amare, e servire l'un più che l'altro, secondo i meriti, e ‘l valore; ma non però assicurarsi tanto con questa dolce esca d'amicizia, che poi tardi ce n'abbiamo a pentire. Allor M. Federico (2), veramente, disse, molto maggior saria la perdita, che 'l guadagno, se del consorzio umano si levasse quel supremo grado d'amicizia che, secondo me, ci dà quanto di bene ha in se la vita nostra; e però io per alcun modo non voglio consentirvi che ragionevol sia; anzi mi daria il cuore di concludervi, e con ragioni evidentissime, che senza questa perfetta amicizia gli uomini sariano molto più infelici che tutti gli altri animali; e se alcuni guastano, come profani, questo santo nome d'amicizia, non è però da estirparla così dagli animi nostri; e per colpa dei mali privar i buoni di tanta felicità; ed io per me estimo che qui tra noi sia più di un par di amici, l'amor de' quali sia indissolubile, e senza inganno alcuno e per durar fin alla morte con le voglie conformi, non men, che se fossero quegli antichi che voi dianzi avete nominati: e così interviene quando, oltre alla inclinazion  che nasce dalle stelle; l'uomo s'elegge amico a sè simile di costumi: e 'l tutto intendo che sia tra buoni e virtuosi, perchè l'amicizia de' mali non è amicizia. Laudo ben, che questo nodo cosi stretto non comprenda, o leghi più che due; che altramente forse saria pericoloso perchè, come sapete, più difficilmente s'accordano tre instrumenti di musica insieme, che due. Vorrei adunque che 'l nostro Cortigiano avesse un precipuo, et cordial amico, se possibil fosse, di quella sorte che detto avemo: poi secondo il valore, e meriti, amasse, onorasse, ed osservasse tutti gli altri, e sempre procurasse d'intertenersi più con gli estimati, e nobili, e conosciuti per buoni, che con gl'ignobili, e di poco pregio; di maniera che esso ancor da loro fosse amato, ed onorato; e questo gli verrà fatto, se sarà cortese umano, liberale, affabile, e dolce in compagnia; officioso, e diligente nel servire, e nell' aver cura dell’utile, e onor degli amici così assenti, come presenti, sopportando i loro difetti naturali, e sopportabili; senza rompersi con essi per piccìola causa, o correggendo in sè stesso quelli che amorevolmente gli saranno ricordati; non si anteponendo mai agli altri con cercar i primi, e i più onorati luoghi; nè con fare come alcuni, che par che sprezzino il mondo, e vogliano con una certa austerità molesta dar legge ad ognuno; ed oltre allo essere contenziosi in ogni minima cosa, e fuor di tempo, riprender ciò che essi non fanno; e sempre cercar causa di lamentarsi degli amici; il che è cosa odiosissima".

 

(1) mali = cattivi

(2) M. Federico = Messer Federico, Duca di Urbino

 

Ma veniamo alla burla, che racconteremo succintamente prima di dare spazio all’intera descrizione del Castiglione. Trovandosi quest’ultimo alloggiato in un’osteria a Faglia, vide tre amici che giocavano a carte. Uno di questi, avendo perso i propri denari, iniziò a bestemmiare e a maledire le carte per poi andarsene a dormire. Rimasti soli, gli altri due pensarono di tirargli una burla consistente nel fargli credere di essere divenuto cieco. A tal fine spensero tutte le candele e iniziarono a parlare a voce alta, dicendo frasi che potevano dare l’idea che stessero ancora giocando. Per il baccano svegliarono l’amico che era andato a dormire. Costui, dapprima, non fece tanto caso agli altri che giocavano, ma poi svegliatosi ben bene domandò loro come fosse possibile che stessero giocando al buio. Al che gli altri due gli risposero che almeno due candele erano accese e gli domandarono se oltre ai soldi avesse perso anche la vista. Poi si alzarono dal tavolo da gioco e a tentoni raggiunsero i loro letti, fingendo che l’amico li prendesse in giro dicendo che era buio. Costui iniziò a preoccuparsi veramente di essere divenuto cieco e piangendo iniziò a pregare la Madonna di Loreto affinché lo perdonasse per aver bestemmiato e ingiuriato avendo perso i soldi a giocare a carte, facendo nel contempo voto, su suggerimento degli amici, che se gli avesse fatto ritornare la vista sarebbe andato nudo e a piedi scalzi a Loreto portando come omaggio alla Vergine due occhi d’argento. Gli altri gli dissero che sarebbero andati invece ad Acquapendente per cercare un medico. Preso ancor più dal panico, il presunto cieco con infinite lacrime fece ancor più voto di non mangiare carne il mercoledì e uova il venerdì e di digiunare ogni sabato assumendo solo pane e acqua. Il tutto in onore della Signora di Loreto. Infine, i due amici entrarono nella sua stanza portando due candele alla cui vista il poveruomo si sentì libero da tanto penare, senza tuttavia aver forza né di parlare né di ridere una volta resosi conto dello scherzo, tanto era stata la paura di essere divenuto veramente cieco. Al che gli amici ancora lo burlarono dicendogli che siccome aveva riacquistato la vista, avrebbe dovuto mantenere i voti promessi andando nudo e scalzo a Loreto.

 

Di seguito l’intera burla raccontata dal Castiglione. Per facilitarne la lettura, al fine di evitare le abbreviazioni, ci siamo affidati a una fedele versione de Il Cortigiano scritta nell’Ottocento:

 

“Di questa sorte burle ogni dì veggiamo: ma tra l’altre quelle son piacevoli che al principio spaventano, & poi riescono in cosa sicura; perchè il medesimo burlato si ride di se stesso, vedendosi aver avuto paura di niente. Come essendo io una notte alloggiato in Faglia, intervenne che nella medesima osteria ov'ero io, erano ancor tre altri compagni, due da Pistoja, l'altro da Prato, i quali dopo cena si misero (come spesso si fa) a giocare; così non v'andò molto che uno dei due Pistoiesi perdendo il resto, restò senza un quattrino, di modo, che cominciò a disperarsi, e maledire, e biastemmare fieramente; e così rinegando, se n'andò a dormire. Gli altri due avendo alquanto giocato, deliberarono fare una burla a questo che era ito al letto. Onde sentendo che esso già dormiva, spensero tutti i lumi, e velarono il fuoco; poi si misero a parlar alto, e far i maggiori romori del mondo, mostrando venire a contenzion del giuoco, dicendo uno: Tu hai tolto la carta di sotto; l’altro negandolo con dire: E tu hai invitato sopra flusso; il giuoco vadi a monte; e cotai cose; con tanto strepito, che colui che dormiva, si risvegliò; e sentendo che costoro giocavano, e parlavano così, come se vedessero le carte, un poco aperse gli occhi, e non vedendo lume alcuno in camera, disse: E che diavol farete voi tutta notte di gridare? Poi subito si rimise giù, come per dormire. I due compagni non gli diedero altrimenti risposta, ma seguitarono l'ordine suo, di modo, che costui meglio risvegliato, cominciò a maravigliarsi; e vedendo certo, che ivi non era nè fuoco, nè splendor alcuno, e che pur costor giocavano, e contendevano, disse: E come potete voi veder le carte senza lume? rispose uno delli due: Tu dei aver perduto la vista insieme con li danari; non vedi tu se qui abbiam due candele? Levossi quello che era in letto, su le braccia; e quasi adirato disse: O ch'io sono ebriaco, o cieco, o voi dite le bugie. Gli due levaronsi, ed andarono al letto tentoni, ridendo, e mostrando di credere che colui si facesse beffe di loro; ed esso pur replicava. Io dico che non vi veggo. In ultimo li due cominciarono a mostrar di maravigliarsi forte, e l'uno disse all' altro: Oimè, parmi ch' el dica da dovero; dà qua quella candela, e veggiamo se forse gli si fosse intorbidata la vista. Allor quel meschino tenne per fermo d' esser diventato cieco, e piangendo dirottamente, disse: O fratelli mei, io son cieco; e subito cominciò a chiamar la Nostra Donna di Loreto, e pregarla che gli perdonasse le biastemme, e le maledizioni che le aveva date per aver perduto i denari. I due compagni pur lo confortavano, e dicevano: E' non è possibile che tu non ci vegghi; egli è una fantasia che tu t' hai posta in capo. Oimè (replicava l'altro) che questa non è fantasia, nè vi veggo io altrimenti che se non avessi mai avuti occhi in testa. Tu hai pur la vista chiara, rispondeano li due, e diceano l'un l'altro: Guarda come egli apre ben gli occhi! e come gli ha belli! e chi poria creder ch' ei non vedesse? il poveretto tuttavia piangea più forte, e domandava misericordia a Dio. In ultimo costoro gli dissero; fa voto d' andare alla nostra Donna di Loreto divotamente scalzo, e ignudo, che questo è il miglior rimedio che si possa avere: e noi frattanto anderemo ad Acqua-Pendente, e a quest'altre terre vicine per veder di qualche medico; e non ti mancheremo di cosa alcuna possibile. Allora quel meschino subito s'inginocchiò nel letto, e con infinite lacrime, e amarissima penitenza dello aver biastemmato, fece voto solenne d'andare ignudo a Nostra Signora di Loreto, ed offerirle un pajo d'occhi d' argento, e non mangiar carne il mercore, nè ova il venere, e digiunar pane ed acqua ogni sabbato ad onore di Nostra Signora, se gli concedeva grazia di ricuperar la vista. I due compagni entrati in un'altra camera accesero un lume, e se ne vennero con le maggior risa del mondo davanti a questo poveretto: il quale benché fosse libero di così grande affanno, come potete pensare, pur era tanto attonito della passata paura, che non solamente non potea ridere; ma nè pur parlare; e li due compagni non faceano altro che stimularlo, dicendo; che era obbligato a pagar tutti questi voti, perchè avea ottenuto la grazia domandata” 3.

 

Note

 

1. Si veda Scrivendo e Taroccando.

2. Per il pensiero del Castiglione sul gioco delle carte si veda De Rege Scacchorum, De Imperatore Tarocorum.

3. Il Libro del Cortigiano del Conte Baldessar Castiglione, Volume Primo, Dalla Società Tipografica de’ Classici Italiani, Milano, Anno 1803, pp. 220-223.

 

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