Saggi Storici sui Tarocchi di Andrea Vitali

Saggi dei Soci e Saggi Ospiti

Del Cane di Diogene

Opera satirico-letteraria di Francesco Fulvio Frugoni (1687)

 

Andrea Vitali, febbraio 2013. Aggiornato giugno 2022

 

 

Francesco Fulvio Frugoni nacque a Genova nel 1620 e trascorse buona parte della sua fanciullezza in Spagna. Ritornato nella città natia, entrò a far parte nel 1637 dell'Ordine dei Minimi di S. Francesco di Paola. Dopo aver frequentato le università di Alcalá de Henares e di Salamanca intraprese viaggi che lo portarono in Sardegna, a Monaco e da qui a Parigi dove studiò alla Sorbona. Luigi XIV, il Re Sole, desideroso di conoscerlo, lo invitò diverse volte a corte. In seguito, fu in Inghilterra e in Olanda. A Venezia, che vide la pubblicazione di alcune sue opere letterarie, morì tormentato dalla gotta nel 1686. Nel corso della sua esistenza frequentò personaggi importanti, fra cui Anton Giulio Brignole Sale 1 che lo volle con sé una volta divenuto ambasciatore della Repubblica genovese in Spagna, Emanuele Tesauro 2 e Aurelia Spinola, duchessa del Valentinois, di cui divenne consigliere. Scrisse numerose opere dal carattere essenzialmente satirico, lodate a tal punto dai contemporanei da additarlo come uno dei massimi prosatori del secolo.

 

L’opera sua più famosa è Del Cane di Diogene pubblicata postuma a Venezia in sette volumi tra il 1687 e il 1689, dove l’autore mette in bocca a Saetta, il cane di Diogene, una variopinta descrizione della viziosità umana in dodici racconti o ‘latrati’, riversando su tutti un’ironia tesa a correggere la cultura del mondo antica e moderna a dir poco desolante verso cui il Frugoni manifesta ogni disprezzo. Per tanto compito si avvale "della cinica Libertà, propria di quel filosofo, che si diceva per vezzo, ma più per vanto, Morditor de i Tristi e Lambitore de i Giusti” 3. Non gli aggrada né Dante, né il Petrarca né tanto meno il Boccaccio che severamente giudica nel Tribunal della Critica sulla cui porta d’ingresso, parodiata dalla Commedia, l'autore fa campeggiare la frase: “Tribunale della Critica, / Inesorabile: Inappellabile. / Uscite di baldanza, o voi ch’entrate! / Entrate nel Parnaso, o voi ch’uscite!”. Al sommo poeta riserva un laconico giudizio: “Il Dante hoggidì è un autor abolito perche di stampa antica, e di frase oscura. Il dare più non s’intende” 4 

 

 

 

del Cane di Diogene

 

                                                    Incisione da Del Cane di Diogene, Volume I Primi Latrati, 1689

 

 

Gianfranco Formichetti così scrive di quest’opera: “Di certo c'è solo l'ingegno dell'uomo, che Dio, tra le molte apparenze, ha messo nel mondo; e per il Frugoni, innanzitutto di ingegno c'è il suo. Del Cane di Diogene si può considerare la sintesi delle opere precedenti: la visione del mondo che traspare è quella di un cammino tragico verso l’al di là costellato di drammatica confusione, di evidente contraddizione, una sorta di gioco delle maschere ante litteram; e su tutto incombono il tempo che inesorabilmente trascorre e la morte” 5.

 

 

 

 Francesco Fulvio Frugoni

 

                                 

Nell’opera vengono riportate le numerose lettere di encomio indirizzate all’autore da eminenti personaggi del tempo, fra cui cardinali, cavalieri, politici, ecc., raccolte con il titolo Il Collare Pretioso al Cane di DiogeneEncomi Gemmati. Scritti all’Autore da diversi Suggetti Insigni, Amici, ed Autorevoli. Raccolti dall’Opera delle Penne Ingegnose: cioè Lettere varie manierosissime al medesimo, co i loro Elogi, manipolati già per le Stampe 6. E ancor più, poiché nelle Ghirlande Poetiche sono riportati i sonetti in italiano e in latino dedicati da diversi autori al Frugoni per la meritoria opera del Cane 7.

 

Diversi sono i passi in cui il Frugoni parla di tarocchi. Li riporteremo in base ai numeri dei singoli Latrati. Nei Quarti Latrati, troviamo un riferimento alla Ruota della Fortuna laddove viene compiuta una satira sul poeta tragico Melanzio. Della vita di quest’ultimo così scrive Lorenzo Crasso nell’opera De Istoria de Poeti Greci: «MELANTIO. Portò Nome questo Melantio di Poeta Tragico‚ ed Elegiografo‚ e fu libero nоn men di lingua, che avido di mangiare. Son da Ateneo citate in più d’un luogo le sue Opere. Visse ne’ tempi di Cimone, e fu suo famigliare siccome si narra. Plutarco nella Vita di Cimone fa di lui menzione‚ e d’alcuni versi in lode di Cimone. De’ suoi costumi dice il Giraldi: “Fuit vero Melanthius voracitatis, & adulationis crimine, seu palpí suo tempore incensatus. Addit etiam Suidas: & ipsum muliebria pati consuevisse”» cioè "In verità Melanzio ai suoi tempi fu accusato per il vizio della voracità e dell’adulazione o per meglio dire delle lusinghe. Aggiunge inoltre la Suda che era anche solito lasciarsi usare come una donna) 8.

 

Senza alcun risparmio sull’aspetto del libidinoso mangiatore si accende l’ironia e la satira del Frugoni, dove quel ‘Porcellon’ viene paragonato all’asino raffigurato nella Ruota dei tarocchi:

 

“In ciò riferire passo insensibilmente a spiegar la sensualità, ch’egli praticava nel bere; Ma non bevea, nò! masticava, biasciava, ruminava, saporeggiava, succhiava, mammava il vino. Tra gli altri vasi, de quali faceva conserva, uno si segnalava al candore, pur era il suo più favorito, e perciò il più frequentato, bench’ egli alcun candor non havesse. Allusiva però assai era la tazza al Beone, poiche con esser di Porcellana ad un Porcellon convenia. Memphi ne abbondava, come che ve ne fosse la fondiera, onde Melanthio scielta n’havea la più lustra, ch’era per lui anche la più lustrale, mentre n’aspergea con sorsi, ogn’hor reparati la gola, fregolatissima nel sorbire. Tra gli altri liquori di Bromio, ch’ei si provedea come’ un Fauno intendendovi 'l suo vecchio Sileno, Maestro degno di tal Bacco, principeggiava un vino, ch’era da Principe appunto; sicome da Principe vivea Melanthio, benche fosse per l’estrattione vilissimo Paltoniere; Ma la rapina era stata la sua Fortuna, sulla cui ruota s’assidea pettoruto & intonato, conforme si pinge l’Asino in gravità sulle carte de i Tarocchi, havendo sotto, & alle falde gli huomini suggetti, e depressi...” 9.

 

Se nella parte sottostante della Ruota e ai suoi lati gli uomini apparivano schiavi e depressi, non si poteva dire lo stesso di Melanzio che, al contrario ben pasciuto, si pavoneggiava nella parte superiore come viene raffigurato l’asino nella Ruota dei tarocchi. Tale immagine, non consueta con l’intero corpo dell’asino, trova i suoi prodromi nella Ruota dei Tarocchi Visconti laddove il personaggio seduto in posizione superiore e l’uomo che sta per risalire verso la cima hanno orecchie asinine, mentre il personaggio che cade possiede una lunga coda 10. Questi elementi sono rappresentativi della natura animalesca dell’uomo la cui Vanitas non permette di riconoscere e accettare il senso della sorte in quanto ancora legato a un mondo puramente materiale. Stesse orecchie d’asino si trovano in due personaggi della Ruota nel Tarocco Brambilla 11 in colui che ‘regna’ e in quello che ‘regnerà’ quale dimostrazione dell’insensatezza che colpisce le persone fortunate e quelle che sanno di poterlo diventare. Inoltre, le stesse orecchie asinine sono presenti nel personaggio regale assiso sulla ruota nel Libro della Ventura di Lorenzo Spirito del sec. XV.

 

 

 

                                                      Tarocchi Colleoni Baglioni             

   

                                                    Ruota della Fortuna, dai Tarocchi Colleoni Baglioni, sec. XV

 

 

                                                          Tarocchi Brambilla

 

                                                          Ruota della Fortuna, dai Tarocchi Brambilla, sec. XV

 

 

 Lorenzo Spirito

 

                                                 Ruota della Fortuna, da  Lorenzo Spirito, Libro della Ventura, 1483 

 

 

A tal proposito, risulta evidente il rapporto con la Ruota della Fortuna attribuita al Dürer nel Das Narrenschiff (La Nave dei Folli) di Sebastian Brant 12 governata dalla mano divina e composta da sole figure asinine.

 

 

 

Der Narrenschiff

 

                                                                           Albrecht Durer, La Ruota della Fortuna,

                                                                 da Sebastian Brant, Der Narrenschiff, Basilea, 1494 

 

 

Di grande interesse risultano alcuni versi dove la condanna della crapula e della lussuria, fomentata quest’ultima dalla prima, si manifesta con l’attribuzione  a entrambe dell’appellativo Sirocchie Gemelle, cioè ‘Gemelle Pazze’, in quanto il seguirle conduceva al peccato: “Io stetti a veder la Scena di quel Convito, e notai tutto distintamente conforme, senza menzogna, hò narrato, accioche all’Idea d’un’huomo cotanto improprio, & abbominoso, impari l’huomo provido, e frugale; ad aborrir sempre più la Crapula, & a sfuggire ogn’hor più la Lussuria, due Sirocchie gemelle” 13.

 

Come descritto altrove, poiché il vento scirocco chiamato anche vento theroco 14, era creduto indurre alla pazzia, da cui il termine sciroccato, per Sirocchie gemelle deve intendersi Gemelle pazze. Il termine pazzo, oltre ad aver dato il nome di Tarocco al gioco 15 era attribuito a tutti coloro che privi di ragione peccavano non credendo in Dio 16.  

 

Un secondo prosare sui tarocchi si trova sempre nel medesimo volume dei Quarti Latrati, laddove l’autore compie una digressione sulla perniciosità del gioco delle carte. Di grande interesse in quanto il Frugoni per tale disamina si avvale di alcuni Trionfi, certuni espressamente citati, altri da intuire. 

 

Frugoni, riportando ‘fedelmente’ ciò a cui assistette in Asia, scrive che i mariti lasciavano che gli amici giacessero con le loro mogli, capre contente nel sollazzarsi con due caproni (Hirci). Prendendo spunto dal mito di Aci e Galatea rammenta donne che in mare si facevano sostenere spudoratamente dai propri amanti senza pericolo che questi venissero uccisi dai mariti, paragonati al Ciclope Polifemo che al contrario del mito, essendo innamorato della ninfa, uccise Aci scagliandogli contro un enorme scoglio. Vide donne, paragonate a Efidriadi cioè a Naiadi, ninfe delle sorgenti, indulgere nude con uomini dalla natura di fauni e silvani (creature semidivine che governavano le campagne, i boschi e le greggi) senza che i loro mariti, intesi come Satiri e Pani (anch’essi semidei della natura) se ne preoccupassero. Insomma, una bella genia di lussuriosi dove le donne venivano ‘sforacchiate’ come quelle canne utilizzate per costruire siringhe (strumenti musicali ad ancia).

 

Giunto a questo punto l’autore, raccordandosi con Socrate, paragona la vita a un gioco laddove i vizi campeggiano sopra le virtù, esattamente come avviene nei tarocchi. Vedremo in seguito come Socrate si riferisse al gioco dei dadi e non alle carte. Con l’esclamazione “Oh come dipinti al vivo in quelle Immagini Cornute [i tarocchi], si raffigurano!” il Frugoni intende evidenziare come in quei frangenti i tarocchi avessero preso vita, una vita dedita al Diavolo, con la Luna che invece di essere tenuta nelle mani in quanto carta, risiedeva piuttosto nella testa di quei personaggi, e che sebbene alla fine le trombe avessero fatto sentire gli squilli del Giudizio per risvegliare i dormienti, a nulla sarebbero servite non possedendo i nostri interpreti alcun sentimento di comportamento etico (Sinderesi).

 

Vide anche, continua il Frugoni, Cavalieri così esperti nel gioco da spogliare dell’oro le Dame con cui giocavano per poi attrarle sessualmente con il loro ‘favo’, cioè con il proprio organo sessuale, un pomo rubato dal giardino dove le ninfe Esperidi custodivano i pomi d’oro di Era. I mariti non si preoccupavano delle mogli le quali, al pari di Atlante nel sostenere il mondo sulle spalle, erano divenute ‘Atlantesse’ del disonore, sostenendo il proprio mondo muliebre (ruolo di mogli) a testa alta e nello stesso tempo il loro osceno fare con il petto e con il dorso, cioè concedendo interamente il proprio corpo.

 

Continuando a parlare nelle vesti di Saetta, nome del cane di Diogene, lo scrittore prorompe in una saettatrice (invettiva) contro le donne infedeli che l’animale ascoltò da Antistene nel Ginnasio pubblico di Atene: il fallo di Venere (l’organo sessuale maschile) era in grado di corrompere a tal punto la pudicizia rendendo impossibile il ritorno all’onestà e alla continenza. Seguendo il libro delle carte, cioè quanto le carte esprimevano, continua il Frugoni, si impara solamente una famigliarità infame.

 

A conclusione, lo scrittore sottolinea come fosse difficile per ogni marito che giocava a carte custodire una moglie vana sottoposta a ogni tentazione, così come apprese nel Ridotto di Menfi dove i mariti, intenti a spogliare dell’oro i loro simili, concedevano tutto il tempo necessario agli amanti di spogliare nella propria casa le loro mogli.

 

Riportiamo di seguito il testo originale di quanto riassunto:

 

“Dirò ciò che vidi nell’Asia, e per tal cagione m’imagino ch’anco sia tutto il Mondo paese. Vidi Mariti così buoni Amici ch’accomunavansi anche le Mogli, Capre contente, per haver’ ognuna due Hirci scambievoli. Rincontrai nelle piagge dell’Jonio alcune Galatee notanti, ognuna delle quali avea il suo Aci, che galeggiar la facea col sostenerla, postale sotto ‘l petto la man senza periglio che ‘l Polifemo geloso gli seppellisse, con uno scoglio addosso, nell’onde, attesoche gli Aci erano Drudi, e Mariti. Vidi nel cespuglioso letto del Manzo (che quando è verace d’onde si chiama Duca de i torrenti, e qual’hor sia scarso d’acqua, Visconte de i ruscelli, si chiama) scherzare spogliate, senza rossor, ma non candite, ancorche lavate, l’Ephidriadi, co i Fauni, e co i Silvani amanti, ancorche vi fosser presenti gli Sposi Satiri, e Pani, che seben si sentiano spuntar le corna, perche magnavan con queste, festeggiavano la lor vergogna. Vidi parimente abbeverarsi a quelle linfe agonizzanti le impudicitie assetate: perire in quei rivoli moribondi le pudicitie affameliche, deporre il Cingolo della castità male stretto, perche rilasciato dalla licenza, le Verginelle falaci, e divenute, di Siringhe perseguitate, fragili Canne, piegarsi lievi all’arbitrio de i Semicapri lascivi, che ne formavano Zampogne, foracchiate dal Dishonore. Proseguirò gl’Incontri degli Adulterati Imenei, de i Thalami violati, anche coll’impulso del Giuoco, poiche tutta l’humana vita, da cui non la renda seria con la Virtù, si riduce a giuoco dal Vitio. Quindi mi raccordo che Socrate solea paragonarla ad un Giuoco di Carte, aggiungerò io di Tarocchi nell’Assunto de i Mariti Goccioloni, che abbandonano le Mogli loro alla libertà della Moda, e quasi le scartano, perche altri le riassumano. Oh come dipinti al vivo in quelle Immagini Cornute si raffigurano! A lor tocca spesso l’alzar’ il Diavolo Antesignano, e Corifeo di tutto il Cornigero Populo: e spesso il Bue si vede finto in mano al vero: La Luna crescente stà più nel capo, che in pugno, di cui la giuoca; E benche suonin le trombe per ultimo, non si risentono quegli stupidi, che han l’orecchio incallito, al sussurro della Sinderesi. Vid’io pure nell’Asia seduti a questo Giuoco di Tarocchi Cavalieri, e Dame, giucar’ a vincer, non la borsa ma la pudicitia. I Cavalieri non lasciarsi affettatamente perdere il contante, spogliavan le Dame, che ghiotte dell’oro si rendeano arrestate a que Meleagri, che (seben dalla ritrosia innagrite) le indolcivano con quel favo, che corrompe la pudicitia, e le prendeano con quel pomo, che colto negli Hesperidi fa tramontar’ anche le Tramontane del Ciel Civile. Stavano spettatori, ò pur fingeano di non vederle i Mariti di quelle Atalante, che divenute Atlantesse del Dishonore, sostenevano il Mondo muliebre col capo, e l’Osceno col petto, se non pure col dorso, in quel Giuoco anche figurato. Quand’io fur scielto da Antistene, colà nel Cinosarge d’Atene, per Impresa della Setta Cinica, onde nomommi Saetta, mi raccordo ch’ei, tra l’altre sue sentenze sensate, pronunciò questa saettatrice contra le femmine impure, ch’a i lor Mariti non serban fede: Venerem ergo sagittis confoderem, si deprehenderem, quando ex nostris permultas honestas, & morum bonitate insignes fœminas corrupit. Si che il fal di Venere, corrompe la pudicitia, e feminato nell’anima la rende così sterile, che non può germogliarne più il fiore dell’honestà, né fruttificarvi ‘l ramo della continenza. Ma non è tanto colpa di Venere, quanto di Vulcano, che la sua Moglie sia laida. I Mariti, Zoppi nel seguire le loro Ciprigne lubriche, son cagione che queste cadano co i Marti Drudi, e con gli Adoni seguaci. Le lasciano giucar con essi, e non sanno che nel libro delle Carte s’impara sovente la familiarità infame, che svergogna le famiglie famose. E’ ben difficile che ‘l Marito, quando sia Giucator anch’egli, possa custodire la Moglie, che fia sdrucciola, e vana, onde una pietruzza d’inciampo la fà cascare; un’alito di tentatione la fa commuovere. Nel Ridotto di Memphi v’erano molti mariti, che abbandonate le Case loro, anche di notte, davano tempo agli Amanti di spogliar le lor femmine, all’hor ch’essi erano tutti attenti a spogliar’ i lor Emuli” 17.

 

La frase “Quindi mi raccordo che Socrate solea paragonarla ad un Giuoco di Carte” 18 evidenzia la credenza del Frugoni che le carte fossero esistite già in epoca antica. Tuttavia, la frase che egli riporta come nota al margine del testo ripresa dagli Emblemata dell’Alciato 19, manifesta il suo errore. Un errore che ancora oggi spinge taluni a sostenere proprio per errata conoscenza storica, che le carte fossero presenti da millenni. La frase citata è la seguente. “Aleae ludo similis est vita & quidquid evenit veluti ā quandam tesseram deponere oportet” che significa "La vita è simile al gioco dei dadi: e, qualunque cosa accada, bisogna lanciarla (gettarla, calarla) come un dado".  

 

L’errore del Frugoni fu quello di interpretare la parola ‘tessere’ come carte, quando da tempo si conosce che con quel termine venivano designati i dadi punteggiati come  scriveva Don Giacinto Amati nel 1829: “Senza timore di errare, si può assentatamente dire che la tessera dei Latini non è assolutamente il talo dei Greci, ma il dado punteggiato con proporzione di aumento in ciascheduna delle facce dall'unità sino al sei, come sono principalmente i nostri dadi” 20. Sullo stesso tema, trattando del significato delle tessere in generale, scrive Gioacchino Mancini: “Vengono poi le tessere lusorie (tesserae lusoriae) in forma di cubi o di dadi d'avorio, recanti un numero o una lettera da un lato, e talvolta in un altro lato parte di un motto, spesso di augurio, scritto sulla tabula lusoria, da combinare con le altre parti del motto stesso scritte sugli altri dadi. Simili tessere recanti una cifra romana o una lettera numerale greca erano usate quali pedine nel giuoco detto ludus duodecim scriptorum. L'accezione di tessera nel senso di dado (lusorio) è stata estesa ad altri dadi, e in particolare ai cubetti adoperati nell'arte del mosaico, che si chiamano appunto abitualmente tessere o tasselli” 21.

 

Venendo ai Trionfi, come precedentemente espresso occorre considerare che alcuni vengono esplicitamente citati, mentre altri sono stati individuati in base alle situazioni descritte. Le carte sono: le Stelle, il Diavolo, il Toro, la Luna, il Giudizio, il Mondo, il Sole, la Torre e gli Amanti. Che l'autore faccia riferimento a un mazzo di Minchiate si evince dalla presenza del segno astrologico del Toro, indicato come Bue, e per il fatto che la carta del Giudizio viene chiamata 'le Trombe' che nelle Minchiate conclude, dopo il Mondo, il corteo trionfale, come la frase "E benche suonin le trombe per ultimo" evidenzia 22.

 

Di seguito le frasi con nostri commenti:

 

Le Stelle: “Vidi nel cespuglioso letto del Manzo scherzare spogliate, senza rossor, ma non candite, ancorche lavate, l’Ephidriadi, co i Fauni, e co i Silvani amanti, ancorche vi fosser presenti gli Sposi Satiri, e Pani, che seben si sentiano spuntar le corna, perche magnavan con queste, festeggiavano la lor vergogna”. L’immagine di una Efedriade ossia di una Naiade, ninfa delle acque sorgive, appare per la prima volta nella carta delle Stelle nel foglio Cary (fine sec. XV - inizio XVI), divenendo modello per tutte le successive raffigurazioni 23

 

Il Diavolo: ‘A lor tocca spesso l’alzar’ il Diavolo Antesignano, e Corifeo di tutto il Cornigero Populo’. Mentre 'Antesignano' significa precursore, colui cioè che precede e guida gli altri nella dottrina o nella azione, nella tragedia greca antica Corifeo sta per capo del coro e in senso ironico promotore di una iniziativa. In parole povere il Diavolo risulta essere la guida, il capo di tutta la mala genia di quel Cornigero Populo (Popolo di cornuti). 

 

Il Toro e la Luna: “e spesso il Bue si vede finto in mano al vero: La Luna crescente stà più nel capo, che in pugno, di cui la giuoca” a significare che spesso il cornuto, cioè il Toro, si vede finto nella carta tenuta in mano da un vero cornuto, mentre le corna (Luna crescente) stanno più sulla testa di chi gioca che nelle sue mani. 

 

Il Giudizio: “E benche suonin le trombe per ultimo, non si risentono quegli stupidi, che han l’orecchio incallito, al sussurro della Sinderesi”.  Oltre che nelle Minchiate, il termine Trombe si trova nell'opera Le Carte Parlanti dell’Aretino per designare la carta del Giudizio.

 

Il Mondo: “Stavano spettatori, ò pur fingeano di non vederle i Mariti di quelle Atalante, che divenute Atlantesse del Dishonore, sostenevano il Mondo muliebre col capo, e l’Osceno col petto, se non pure col dorso, in quel Giuoco anche figurato”. Il Mondo tenuto sulle spalle da Atlante appare nei Tarocchini del Mitelli, incisore bolognese del Seicento e nei Tarocchi Siciliani.

 

Il Sole: “I Cavalieri non lasciarsi affettatamente perdere il contante, spogliavan le Dame, che ghiotte dell’oro si rendeano arrestate a que Meleagri, che (seben dalla ritrosia innagrite) le indolcivano con quel favo, che corrompe la pudicitia, e le prendeano con quel pomo, che colto negli Hesperidi fa tramontar’ anche le Tramontane del Ciel Civile”. Considerando che Elios, divinità del Sole, lasciava i cavalli del suo carro (il Carro del Sole) a pascolare nel giardino dei pomi d’oro di Era che le Esperidi custodivano, il rapporto oro-sole appare evidente. 

 

La Torre: “Quand’io fur scielto da Antistene, colà nel Cinosarge d’Atene, per Impresa della Setta Cinica, onde nomommi Saetta, mi raccordo ch’ei, tra l’ altre sue sentenze sensate, pronunciò questa saettatrice contra le femmine impure, ch’a i lor Mariti non serban fede: Venerem ergo sagittis confoderem, si deprehenderem, quando ex nostris permultas honestas, & morum bonitate insignes fœminas corrupit” (Io trafiggerei di frecce Venere, se riuscissi a prenderla, dal momento che ha corrotto moltissime delle nostre donne oneste e contraddistinte per integrità di costumi). Con ‘Sagitta’ viene chiamata la carta della Torre nel Sermo perutilis de ludo, primo documento conosciuto sull’ordine dei Trionfi (fine sec. XV o inizi XVI), mentre la ritroviamo come ‘Saetta’ nello ‘Strambotto de Triumphi’ di Serafino Aquilano (sec. XV) 24.

 

Gli Amanti: “Nel Ridotto di Memphi v’erano molti mariti, che abbandonate le Case loro, anche di notte, davano tempo agli Amanti di spogliar le lor femmine, all’hor ch’essi erano tutti attenti a spogliar’ i lor Emuli”.  Risulta evidente che la frase non abbisogna di alcun commento.

 

Considerato il comportamento dei Nobili a Corte, il Frugoni nel Racconto Dodecimo 25 stila in versi un elenco degli aspetti negativi della Corte iniziando con la quartina seguente:

 

Di quella Corte io parlo, in cui si pianta

   A frondeggiar l’adulatorio inganno;

   Dove, assai più che ‘l ben, si coglie il danno:

   E perche tutta finta, in nulla è Santa 26.                               

 

Seguono altre satiriche attribuzioni, fra le quali essere la Corte un Gioco di Tarocchi, nello specifico di Minchiate dato il riferimento ai due segni zodiacali del Toro e del Leone, assieme all’elemento Aria.

 

Giuoco è la Corte, di Tarocchi a punto,

   In cui la sorte val più dell’ingegno;

   Dove il Bue d’un Lion appar più degno;

   E più vicino a l’Aria, hà miglior Punto 27.             

 

Infine, la Corte è considerata una Ruota di Fortuna infernale:

 

Ruota è la Corte, in cui Fortuna è perno;

   Che non s’inchioda mai se non con punta:

   Che non mormora mai quando è ben’unta:

   Che martorizza i cor, Rota d’Inferno 28.  

 

Passando ai Sesti Latrati 29 nel Dialogo XXXIX del Racconto Undecimo, Frugoni per bocca di Saetta descrive una serie di dialoghi fra Caronte con Mercurio, Radamanto, Eaco, Dispetto e altri, suoi momentanei accompagnatori durante il traghettare le anime dei morti al di là del fiume (L’Acheronte nella Divina Commedia, lo Stige per i Greci, gli Etruschi e i Romani). Fra le Ombre che si avvicinavano alla barca per salirvi, racconta di un Moranaccio panciuto di soprannome Mangiardaco, dipinto dagli astanti come un Zizzalardone panciuto, tal che neppure Epicuro mai pensò di ospitare un tal porco nella sua Reggia, apprezzamento che trova conclusione con “Il di lui scrigno è il ventre; né la sua zucca hà un granel di sale. Per condirne i Presciuti non basterebbe uno Staio”. Frugoni, a lato di alcuni passi riporta una breve spiegazione oppure un riferimento bibliografico. Riguardo a Per condirne i Presciuti... riportail seguente commento: A condir’ un tal Leccione, tutto il sal d’Ormèno e [è] scarso. L’Autore nell’Archiloco. 30

 

Seguitando, improvvisamente qualcosa di straordinario: un libro avvolto nella carta. Guardando bene, Dispetto si accorse che non si trattava di un libro, ma di un mazzo di carte. Una buona soluzione per riprendere da parte dell’autore la Ruota della Fortuna e dell’asino che la sormontava come descritto nei Quarti Latrati. A Mercurio, che ipotizzava che non fosse certamente un mazzo che esprimesse qualche dottrina, Dispetto elimina ogni dubbio esclamando che si trattava un mazzo di Tarocchi.

 

Al che Mercurio si lancia in un filosofico discorso sull’ingiustizia delle umane sorti in cui l’Uomo-Asino, trionfando sulla Ruota, deprime ordinariamente i virtuosi  coronando d’alloro gli ignoranti e i poveri di mente. Il Diavolo, La Morte, il Postribolo, il Bue e l’Elefante saranno poi gli elementi con cui gli astanti vorranno rappresentarlo. Lasciamo pertanto al Frugoni la continuazione del racconto:

 

Disp. Non è un libro nò: E’ un masso [mazzo] di carte!

Merc. Questo fù il suo Gioco domestico; e con ragione, poiche in una di quelle figure s’inchiude la di lui espressa.

Eac. E qual sarà?

Merc. L’Asino, assiso tronfo su la ruota della Fortuna, che deprime d’Ordinario i Virtuosi, ed inarbora gl’Ignoranti, ed i Tristi. (1)

Radam. Anco fi sarà il Bue a rappresentarlo.

Merc. Ed il Postribolo, nel quale fù solito ad entrar sovente.

Radam. Et il Diavolo, con cui fù confederato.

Merc. E la Morte, che l’aggranchiò all’improvviso, e lo sgozzò come un manzo.

Radam. Più presto come un Toro.

Merc. Anzi, come un’Elefante.

Minos. Non hà però gran proposcide.

Merc. Hà bensi gran peculio. 31

 

(1) Nota a margine: L’Asinon tronfo, e paffuto, sù la rota da Tarocco, sembra d’esser fortunato, per veders’ intronizzata; ma da tutti e conosciuto per un goffo Gufo, e scrocco [parassita]. L’Autore nell’Archiloco.

 

A bene indagare, queste rappresentazioni simboliche non sono altro che la descrizione di alcune carte di minchiate fiorentine, dove accanto alla evidente Morte e al Diavolo, troviamo il Postribolo, ovvero la casa del Diavolo cioè la Torre, poi il Toro, uno dei dodici segni zodiacali presenti nel mazzo assieme all’elefante, non direttamente connesso con un particolare Tarocco (così come si chiamavano i Trionfi, ovvero gli Arcani Maggiori nelle minchiate), ma raffigurato solitamente nel Quattro di Denari come abbellimento, così come altri diversi animali, fra cui galline, scimmie, unicorni, e una lupa 32.

 

Non di meno, con il ricorso a queste rappresentazioni fu intento dell’autore il ribadire quanto già scritto nei Quarti Latrati sulla nefasta azione della Ruota che innalza il bue, cioè l’ignorante, per scaraventare a terra il leone, ovvero il savio.

 

La Fortuna si diletta di giucar’ a Tarocchi(1) scrive Frugoni “percioche preferisce al Lione il Bue: sottomette un’huomo ad un Asino: tal’è l’impulso di quella sua Ruota volubile, con cui solleva l’Indegno, è [e] deprime il Meritevole: innalza l’Ignorante coll’abbatter’ il Savio. Che Ruota? Mi dirai tu: Ella non è altro la ruota della Fortuna, che la Fantasia de Grandi, qual’hor balza lor’ in capriccio d’ingrandire i Piccioli, e di far’ appicciolire quei, che grandeggiano” 33.

 

(1) nota a margine: Quoties voluis fortuna iocari. A Tarocchi giuoca la Fortuna, ed alza spesso l’Asino, e ’l Bue.

  

Continuando nel racconto, Frugoni rivela il significato del termine Tarocco, come da noi individuato in altri testi cinquecenteschi 34. Infatti, poiché Caronte stava imprecando contro tutte quelle anime morte, Radamanto suggerisce di dare il mazzo al traghettatore così che ancor meglio potesse taroccare cioè imprecare sulla barca.

 

Radam. Diansi le carte da Tarocco a Charonte, accioche meglio possa taroccar’ 35 in su la Barca”

 

La risposta di Caronte fu “Sarei ben Tarocco, se le prendessi” cioè sarei veramente un pazzo, uno sciocco, se le prendessi. La spiegazione del rifiuto avviene per bocca dello stesso Caronte:

 

“Non vo' nulla di cotesto Figuronaccio, perche puzza troppo di vituperoso. Rinuntio l'Obolo alla di lui ventraia da vermini; Ma se havessi preveduta questa sua stitichezza (non ostante ch' Ei sia un sacco d'escrementi gli harrei fatta una supposta del remo, e datogli un Sergozzone (1) a pugno chiuso, poiche sempr’ Ei tenne chiuso il suo.!” 36

 

(1) nota a margine. Serguzzone = colpo che si dà nella gola a man chiusa. Politi.

 

In parole povere, Caronte sarebbe stato un Tarocco, cioè uno stolto se avesse accettato di toccare qualcosa appartenente a una così infetta anima, come infetto era il suo corpo tanto da far esclamare a Radamanto:

 

“Fallo passar via, ch’Ei col suo corpaccio lardoso impinguerà il pentolone dell’Herebo, dove nel grasso loro si cuociono i Gnatoni (1), ed i Lascivi”.

 

(1) Gnatoni = parassiti. Famoso è un personaggio dell’Eunuchus di Terenzio, ovvero Gnatone (mascella) considerato da Cicerone il campione esemplare di sfrontata adulazione (De Amicitia, XXV 93-94)

 

Facendo risultare Il Cane di Diogene una vera miniera di personaggi ‘taroccheschi’, Frugoni introduce un Pazzarello, anzi un Pazzerone, da sempre ritenutosi poeta quando in realtà era un ciabattino, un dicitor, un saltimbanco. Si tratta di un personaggio che riassume in sé le caratteristiche sia del Folle che del Bagatto: Folle perché incapace di ragionare data l’attribuzione di Coccuzza (cioè testa) vuota attribuitagli da Caronte e Bagatto in quanto considerato ciabattino 37 e saltimbanco nonché asino da Mercurio che ne marcherà il significato dopo i due punti (nel testo sotto), assecondando una identità che nella produzione dei mazzi di tarocchi, in particolar modo milanesi, trovò ampia diffusione, in ogni modo già presente nella carta dell’Artixan nella Serie Le Condizioni Umane dei cosiddetti Tarocchi del Mantegna. 

 

 

 

 Bagatto da tarocchi milanesi

 

                                                             Il Bagatto, dai Tarocchi Lombardi Della Rocca, sec. XIX

 

 

Artixan Mantegna

 

                                                             Artixan, dai cosiddetti Tarocchi del Mantegna, sec. XV

 

 

 

Di seguito il passo in originale:

 

Radam. Ma chi è quell’altro?

Disp. Un Pazzarello!

Merc. Anzi un Pazzarone! Colui là è stato sempre in humore d’esser Poeta, ed è Ciabbattino: Dicitor’, ed è Rigatiere: Accademico, ed è Saltinbanca: Egli è vile più che un’Asino, e ha più guidaleschi sul dorso che una Rozza da carretta; e pur si figura nella sua Immaginativa d’esser un Cillaro, quando è un Cillone; Ma perche hà la presuntione d’esser cavallo, poi fù gualdrappato dal Tiranno Phalaride, (1) che gli de’ metter in sella, e levar’ il basto, sarà espediente che Pluto il faccia rinserrar nelle sue stalle, co suoi Corsieri che tirano il Carro Tenario.

Char. Me n’accorsi bene all’hor che l’imbarcai; ma molto più, quando negommi a lo sbarco di pagarmi ‘l Guidaggio; (2) poiche a fummeggiare in pretenderne l’Esentione, come Poeta, Dicitor’, e Accademico; E potea aggiunger Bardato, come un Bardotto; ma non è in effetto solo che Bardo.(3) Poco mancò a farlo saltar’ in acqua; ma riflettendo ch’egli havea per testa una Coccuzza vuota, giudicai che non sarebbe gitoa fondo; Né men’ il marcai con la terra d’ombra, percioche (conforme apparisce dal suo color cretaccio) sembra impastato d’Ombra di terra”. (4) 38

 

(1) nota a margine:Claudian. Da Raptu. Proserp.

(2) nota a margine:Guidaggio, sorte di Datio: latino pedagium. Politi

(3) nota a margine:Bardus, stultus interpreatatur a Festo.

(4) nota a margine:Zenophantus fuit quidam stultus qui rideb at profuse. Ravis

 

Così come i ladri dicono ladro agli altri, il deriso personaggio risponde per le rime ai suoi interlocutori, sottolineandone le caratteristiche negative più salienti:

 

Radam. Come t’appelli tu?

Zenoph. Io mi chiamo Xenophanto; E mi rido che voi Giudici diate credito alle Informative di mercurio, & alle querele di Charonte; L’uno è il Nume de i Mercatanti, & degli Oratori; per conseguenza delle Bugie: l’altro è un barcaivolo rabbioso, non ad altro più avvezzo che a scoccar bestemmie, ed ingiurie”.

 

La risposta degli astanti non poteva a questo punto che essere punitiva. Quando mai un mortale aveva osato rispondere in quel modo agli dèi?

 

Radam. E tant’osi Farfallonaccio? Toglielo dal nostro cospetto, Bargello, e per la sua irragionevolezza dagli una ratione, a buon conto, di bacchettate.

Disp. Eseguirò l’Ingiuntione con esattezza: Và Pur là, sacco di grilli! (1)

Zenoph. Ahi, ahi, ahi. Così dunque si tratta un mio pari? Un Cigno d’Helicona, & un Sacerdote delle Muse!

Merc. Cigno nò, ma Corbacchio (2); E non sacerdote delle Muse, ma raccoglitor del Pegasèo Concime” 39.

 

(1) nota a margine: Quegli è un sacco di Grilli, e n hà in testa una gabbia, anzi, un gabbione, che gli fan balzi, e trilli; Ed è un Gabbiano pien di petulaza di pazzia, di scempiezza, e d’arroganza. L’autore nell’Archil.

(2) Corbacchio = corvaccio, grosso corvo (visto con superstiziosa ostilità)

 

Se la Ruota di Fortuna si diletta a giocare a Tarocchi, la vita è il suo gioco e la stessa vita è un gioco di carte, dove tutti vorrebbero essere sospinti dalla Ruota in posizioni maggiormente preminenti ritenendo di meritarsele. Dato che le apparenze ingannano, comprendere chi ci sta di fronte risulta sempre più difficile. Il povero non può permettersi di mostrarsi tale dato che sente di non doverlo essere, per cui in un modo o nell’altro più o meno ascoso tutti riccamente si abbigliano mistificando il proprio ruolo tal da rendere impossibile distinguere l’indegno dal degno. 

 

“Se la nostra vita (come solea dir Socrate, l’Oracolo della morale Filosofia) è un giuoco di carte, si vede in essa che la Donna di Picche và in competenza con quella di Fiori, e che ‘l Fante di coppe vuol tener testa al Rè di Danai. Tutti sfoggiano a diritto, ò rovescio, e non si sa più quasi qual sia il degno, & il ricco, perche l’indegno, e lo scrocco, anche sogliono andare condegnamente, e riccamente abbigliati” 40.

 

Poiché tutto il mondo è paese, a proposito della vita in Asia come descritta nei Quarti Latrati, riprendendo la satira contro le vane voglie delle donne e il loro modo di condurre le relazioni amorose tanto da desiderare di essere dipinte nel mazzo di carte quali Donne di Fiori e di Picche, nei Quinti Latrati Frugoni scrive:

 

“Dormono le Dame di Menfi, e dell’Asia tutta, fino a mezzo di, perche vegghiano fin’a meza notte. La sera, per parer Amfitriti, vanno al barcheggio sul Nilo su picciole fuste; quivi alcune di esse, divenute Timoniere, le guidano a lor talento dove più lor piace, inseguite da i biondi Nerei,da iGlaucispumosi, da i Tritoni fiottanti sul corno; e questi sono i Cavalierotti che le corteggiano: Indi all’imbrunir si ragunano in qualche luogo topico (1) a veglia, dove cinguettano, come tante Merle, ma che non hanno passato il po’, atteso che si lascian raggiungere. Giuocano a carte, nelle quali si vagheggiano pinte, Donne di fiori, e di picche, pregiandosi di far taroccare i lor’ Amanti, e di scartarli per ingelosirli, prendendosene altri così di facile, come son use a pigliar nuove carte. Raffigurano i lor Mariti nel masso [mazzo] col cimier’ in capo (2), quelle che non sono ad essi fedeli, e ne sorridon per vezzo, stimando galanteria l’infamia, e sogno l’honore” 41.

 

(1) nota a margine: Luogo Topico (dicea un’arguto) è quello, dove si ragunano i Topi a rodere la carne salata, ed anche senza sale. Và ben’a proposito del Testo.

 

Fra gli aspetti più interessanti in quest’opera del Frugoni per quanto di nostro interesse risultano l’affermazione di Caronte di non essere un Tarocco, ovvero un folle laddove rifiuta di prendere in mano un mazzo di tarocchi appartenuto a un pessimo personaggio, oltre alla duplice identità di un’Ombra (anima) definita da Mercurio Pazzerello e Ciabattino assieme, permettendoci di illustrare un significato non ancora compiutamente chiarito.

 

Frugoni scrisse di tarocchi in altre sue opere: nell’Epulone del 1675 con la frase “chi non hà un Re di denari è riputato un fante di coppe: chi non hà il Sole, la Luna, ò ’l Mondo in manó resta un Tarocco” 42 ritorna il significato di Tarocco come un poveretto, un uomo da nulla da accostarsi in tal senso al ciabattino del Cane. Se il senso generale il termine Tarocco come da noi reperito in tanti documenti letterari significa apertamente folle, idiota, balordo, dall’altro si accosta al suo dirimpettaio, cioè al Bagatto con il significato di persona di poco conto, di scarso valore. D'altronde cosa poteva diventare un giocatore senza buone carte in mano: per gli altri un povero mentecatto, un Tarocco, e per sé stesso un idiota per aver perso i propri denari.

 

Nei De’ Ritratti Critici pubblicati nel 1669 a Venezia, il Frugoni a proposito di giocatori divenuti squattrinati per aver dilapidato ai tarocchi i loro beni, scrive che da tutti essi vennero considerati Tarocchi, ma che divenuti ricchi grazie alle successive vincite non furono più considerati tali: "e co Tarocchi non furono più per Tarocchi tenuti" 43. Non più matti, né idioti, né pezzenti grazie all’oro.

 

Frugoni diede alle stampe nel 1643 la Guard’Infanteide 44satira contro la donnesca moda imperante di indossare quel capo d’abbigliamento.

 

Il Guard’Infante, conosciuto in Italia verso la fine del Cinquecento, consisteva in un’armatura circolare di ferro e legno composta da una serie di cerchi concentrici sostenuta da una pesante fodera posta sotto la gonna per tenerla gonfia e tesa in foggia di campana. Tale struttura, che allargava la gonna a dismisura, faceva sembrare alquanto stretto il punto vita. Al canto settimo i commenti di un personaggio che aveva osato criticare l’ampiezza della gonna vengono valutati al pari di sciocchezze, dato che quella struttura era considerata dai più di grande bellezza, e per questo esortato a dedicarsi piuttosto ai tarocchi in modo da poter sfogare nel migliore dei modi il suo sdegno. Essendo il poema di carattere comico, l’ottava, come l’intero poema, si manifesta al pari di una satira nei confronti di coloro a cui piaceva quella moda i quali, ostentando una comprensione che andava al di là della loro reale intelligenza, diffamavano coloro che al contrario la criticavano. Inoltre, in un caso come questo, l’inviare qualcuno a giocare a tarocchi significava creare un parallelo fra l’intelligenza del personaggio e quel gioco, il cui nome, come sappiamo, identificava un personaggio stupido e balordo. 

 

Canto Settimo

 

Andate, che non vagliono un baiocco

   Questi vostri consigli senza ingegno,
   E fate, che da voi mai non sia tocco
   Il Guard’Infante così bello, e degno.
   Ite più presto a giocar a tarocco,
   E più nel sodo ad isfogar lo sdegno,
   Che non havete occasion' alcuna
   Di conturbár il Cielo della Luna 45.

 

Infine, con la Vergine Parigina del 1661, Frugoni sotto lo pseudonimo di Flaminio Filandro intese paragonare le ruberie di Elfreda, seconda o terza moglie di Edgardo d'Inghilterra e prima moglie di un re a essere consacrata e incoronata Regina di quel Regno, divenuta la matrigna di molti racconti medievali in quanto presunta mandante dell’uccisione del figliastro Edoardo il Martire, alla ladreria di colui che al tavolo da gioco non si curava affatto di spennare a più non posso gli incauti che sventuratamente si sedevano accanto a lui. Una donna divenuta nel tempo simbolo dell’avarizia, tacciata dai religiosi come il più pertinace vizio che induceva gli uomini a sempre accumulare, secondo l’usanza dei giocatori più irrequieti.

 

Frugoni con il Cane ci apre il palcoscenico della società barocca del tempo, il cui rimirarla non può che indurre a pensare che in questo mondo nessuna cosa sia mai cambiata. Se da un lato venivano condannati attraverso una critica pungente da parte degli intellettuali i vizi umani, fra i quali la gola e la lussuria detenevano un ruolo privilegiato assieme alla valutazione negativa dell’ignoranza e della pochezza intellettuale tanto da far considerare al pari di bagatelli coloro che vivevano in quello stato, dall’altro veniva lodata la ricchezza o almeno ritenuti savi coloro che sapevano ottenerla o recuperarla. Savi sebbene culturalmente ignoranti. Esisteva una gran bella differenza fra savio e savio. Solitamente i veri savi si lamentavano del fatto che i Signori non pagavano i loro lavori o tardavano lasciandoli nell’indigenza. Fatto che poneva dubbi sulla loro saviezza nel continuare a servirli. I parassiti e i cavalier serventi forse non erano poi quegli uomini così da poco con cui venivano stimati. Dipendeva da quale punto di vista si valutavano. Riguardo il gioco delle carte, i principi morali venivano messi da parte cosicché il giocatore Tarocco non era colui che per sfortuna, pur essendo dotto del gioco, aveva perso i propri denari, ma colui che non aveva saputo riprendersi quanto gli era stato tolto. Vigeva in quella società l’idea che si era Tarocchi perché o si era poveri, miseri oppure perché incoscienti del corretto vivere, senza tuttavia alcuna valutazione delle cause che avevano indotto a tali situazioni o comportamenti. Essere veramente uomini significava non rinunciare a percorrere la scala materiale del certo vivere, l’ottenimento di quel REX NUMMUS di latina memoria senza il quale siamo ancora oggi in buona parte TAROCCHI. Oggi, come allora, l’avarizia insegna.

 

Note

 

1. Si veda Ganellini seu Gallerini.

2. Il Tesauro fu autore di un’opera filosofica molto apprezzata all’epocaSi veda Il Cannocchiale Aristotelico.

3. Celebre è l’incontro fra Alessandro e Diogene mentre quest’ultimo dimorava entro una botte. “Io sono Alessandro, il gran re", disse il Macedone, e a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si definisse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi"». Diogene Laertio, Vita dei FilosofiVita di Diogene il Cinico, VI 60.

4. Francesco Fulvio Frugoni, Del Cane di DiogeneOpera Massima del P. Francesco Fulvio Frugoni Minimo, I Quinti Latrati, cioè il Tribunal della Critica, In Venetia, Per Antonio Bosio, 1687, Racconto Decimo, p. 158.

5. Gianfranco Formichetti, Voce: Frugoni, Francesco Fulvio, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, Treccani online, Volume 50, 1998.

6. Francesco Fulvio Frugoni, Del Cane di Diogene. I Primi Latrati cioè La Scuola D’Antistene, La Fontana di Bacco, & La Moda Smoderata, In Venetia, Per Antonio Bosio, M.DC.LXXXIX. [1689], pp. 113-194.

7. Ibidem, pp. 195-224.

8. Istoria de’ Poeti Greci e di que’ che ‘n Greca Lingua han poetatoScritta da Lorenzo Crasso barone di Pianura, In Napoli, Appresso Antonio Bulifon all’Insegna della Sirena, 1678, p. 332.

9. Francesco Fulvio Frugoni, Del Cane di Diogene. I Quarti Latrati, cioè I Padroni Variati e Gl’Incontri Diversi, In Venetia, Per Antonio Boso, M.DC.LXXXVII. [1687], Racconto Nono, pp. 260-261.

10. Si veda La Ruota della Fortuna.

11. Il mazzo si trova presso la Pinacoteca di Brera.

12. Basilea, 1494.

13. Del Cane di Diogene. I Quarti Latrati, cit., pp. 261-262

14. Si veda Vento Theroco.

15. Si veda Il significato della parola Tarocco.

16. Si veda Il Matto (Il Folle).

17. Del Cane di Diogene. I Quarti Latrati, cit., Racconto Nono, pp. 330-332.

18. Anche Platone paragonò la vita umana al gioco delle tessere o dei dadi (De Repubblica X) e assieme a lui Terenzio: “Ita vita est hominum quasi cum ludas tesseris” (Adelphoe, IV, 7, 21).

19. Viri clarissimi D. Andreae Alciati iurisconsultiss. Mediola. ad D. Chonradum Peutingerum Augustanum, Iurisconsultum Emblematum liber, Augustae Vindelicorum, per Heynricum Steynerum die 6. Aprilis, 1531.

20. Don Giacinto Amati, Ricerche Storico - Critiche - Scientifiche sulle Origini, Scoperte, Invenzioni e Perfezionamenti fatti nelle Lettere, nelle Arti e nelle Scienze, Tomo III, Milano, Coi tipi di Giovanni Pirotta, 1829, pp. 384-385.

21. Gioacchino Mancini, Voce Tessera, in “Enciclopedia Italiana Treccani”, 1937.

22. Per l'ordine dei Trionfi nelle Minchiate si veda figura 1 in Una guerresca partita a Trionfi.

23. Si veda Le Stelle.

24. Si veda L’Ordine dei Trionfi.

25. Francesco Fulvio Frugoni, Del Cane di Diogene. I Settimi Latrati, cioè La Lucerna del Cinico, In Venetia, Per Antonio Boso, M.D.LXXXVIII. [1688].

26. Ibidem, p. 490.

27. Ibidem, p. 491.

28. Idem

29. Del Cane di Diogene, Opera Massima del P. Francesco Fulvio Frugoni Minimo, I Sesti Latrati, cioè La Barca di Caronte, In Venetia, Per Antonio Bosio, M.DC.LXXXVII. [1687]

30. Ibidem, p. 652.

31. Ibidem, pp. 653-654.

32. Riguardo la presenza della Lupa si veda L’origine degli Assi.

33. Del Cane di Diogene. I Quarti Latrati, cit., pp. 135-136.

34. Si veda Tarocco sta per Matto.

35. Si veda Scrivendo e Taroccando.

36. Del Cane di Diogene, I Sesti Latrati, cit., p. 634.

37. Cfr. Voce Ciabattino in Aldo Gabrielli, Grande Dizionario Italiano, Milano, Hoepli, 2011. Si veda inoltre sul rapporto bagatto-ciabattino El bagatella ossia il simbolo del peccato. Il Bagatto venne raffigurato come un ciabattino in alcuni tarocchi Lombardi e Piemontesi (Dotti, Strambo, ecc.). In tutti i casi è da intendersi come un personaggio che compie un lavoro di basso profilo sociale, un lavoro bagatello cioè di poco conto. Riguardo al Bagatto come ciabattino si veda alla Voce Ba! la sottovoce Bagatto: “denominazione di una carta nel giuoco de' tarocchi, cioè di quello dei tarocchi che è inferiore ad ogni altro ed era rappresentato da un ciabattino", in G. B. Bolza, Vocabolario genetico-Etimologico della Lingua Italiana, Vienna, Dalla I. R. Stamperia di Corte e di Stato, 1852, p. 92.

38. Del Cane di Diogene, I Sesti Latrati, cit., pp. 654-655. 

39. Ibidem, pp. 655-656.

40. Del Cane di Diogene. I Primi Latrati, cit., Racconto Terzo, p. 422.

41. Del Cane di Diogene. I Quinti Latrati, cit., Racconto Decimo, pp. 14-15.

42. Si veda L’Epuloni del Frugoni - 1675.

43. Si veda Il giuoco di Tarocchi: un simbolo dell’Humana Vita.

44. Si veda Il giuoco di Tarocchi: un simbolo dell’Humana Vita.

45. La Guard’Infanteide. Poema Giocoso di Flaminio Filandro, In Perugia, Appresso Pietro Tomassi, 1643, p. 149.

 

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