Saggi Storici sui Tarocchi di Andrea Vitali

Saggi dei Soci e Saggi Ospiti

Trionfo o Arme

Dalla Psychomachia all'Araldica

 

di Giuseppe Maria Silvio Ierace


Al tempo del viceré Fernando Joaquín Fajardo-Zúñiga-Requeséns y Álvarez de Toledo, Marchese di Los Vélez, per conto di Carlos Segundo d’Asburgo, ma IV di Napoli, blasoni ed emblemi compaiono, nella capitale del regnum Utriusque Siciliae, sulle carte di un “giuoco d’armi”, scritto a fini ludici con gusto barocco (“Giuoco d'armi de i sourani, e stati d'Europa. Poema del signor d. Domenico D'Aquino dedicato all'illustrissimo, e reuerendissimo monsignor d. Luigi D'Aquino auditore della Cam. Apost. In Napoli : appresso Antonio Bulifon. 1678), in cui, presumibilmente per la prima volta,  avviene l’associazione, per esempio, tra lo stemma del Granducato di Toscana e il dieci di fiori, quello del ducato di Milano e il nove, di Mantova e l’otto, di Modena il sette, e così via discorrendo. Ma i punti in comune non si fermerebbero a quest’unico denominatore, anche se gli esordi dell’araldica, alla stessa stregua di quelli delle carte e dei Tarocchi, appaiono ambigui, perché, dei molteplici riferimenti arcaici, i più sono tra loro lontanissimi, per poi incrociarsi tra loro con modalità tanto disparate quanto altrettanto sorprendenti.


Le “monete” della sala di Svolnir


Assumendo quale modello la cultura nordica, si può constatare come lo scudo si carichi di significati sia istituzionali, sia simbolici, e apotropaici insieme, ma soprattutto identificativi. Tacito infatti perentoriamente afferma: “Scuta tantum lectissimis coloribus distinguunt” (Germ. 6). Alle funzioni di difesa materiale, lo scudo “dipinto” aggiunge elementi peculiarmente culturali, di ornamento e di segnale, o di decoro e contrassegno sociale e professionale, con attribuzione di significato specifico, per esempio di aggressione, al significante rosso o di intenzioni pacifiche al bianco. Pertanto così come venivano appesi alle fiancate delle navi da guerra, quale esplicita minaccia, si ritrovano alle pareti delle sale da convivio in segno di festa, oppure incombono, spettrali, dal tetto della Valhöll. E nelle perifrasi poetiche (kenningar) scaldiche, i salpenningr Svǫlnis, ovvero monete della sala di Svolnir, sono sia il sole e la luna, che la morte, “porta della (medesima) sala di Odino”.


Assi


La metafora numismatica richiama quell’Aes signatum, successivo al “rude”, ancora minerale (bronzo o rame) non lavorato, e precedente il “grave” (Asse, semisse, triente, quadrante, sestante, oncia), “pesante”, ma già valuta. Non avendo un valore facciale, questo tipo di lingotto valeva quanto pesava, in fondo come il semplice metallo, ma, a differenza di quello, era contrassegnato da figure, una per lato, a coppia: aquila con la folgore e Pegaso in volo; elefante e maiale; spada e guaina; lato esterno e lato interno di uno scudo, ecc. Secondo l’opinione espressa da Père Gabriel Daniel (1649-1728), in “Origine du jeu de piquet trouvée dans l'histoire de France” (in “Journal de Trévoux, Memoires pour l'histoire des sciences & des beaux arts”, May 1720, vol. 20, pp. 934-968), a essi andrebbe ricondotta, non solo etimologicamente, la nascita degli Assi, segni di carte da gioco, dopo essere stati danari. Alla stregua degli scudi divenuto quattrini, essendo stemmi, a sottolineare un comune percorso allegorico.


Eùyklos omerico


Nelle lingue germaniche occidentali, come l’olandese o il tedesco, l’opera descrittiva avrebbe avuto letteralmente corrispondenza con l’atto di dipingere, essendo lo scudo il topos privilegiato della rappresentazione, in uno spazio simbolico assoluto, tanto esauriente da limitare in esso, ormai divenuto il “proprio mondo”, il bisogno di conoscenza di sé e dell’altro.


Nella mitologia omerica, il più simile a un vero “schermo di consapevolezza”, che, come scrisse Ludovica Koch (1941-1993), in Al di qua o al di là dell'umano. Studi ed esperienze di letteratura” (
1997), si fa “isola” nel flusso narrativo, è il celebrato scudo di Achille. A partire dalla sua “bella curvatura” (eùyklos), metafora dell’Essere continuo e rotondo di Parmenide, “cuore della verità”. “E’ indifferente, per me, da che punto cominci a percorrerlo: perché in quel punto ritornerò”.


La raffigurazione organizzata in un nastro ininterrotto raccoglie tutte le “cose” e le richiama all’ordine (kòsmos). L’arte con cui è stato concepito, in un’armonia di ricchezza narrativa, non esalta soltanto pìstis, intesa quale fiducia in senso escatologico, e sophìa, sapienza, ma pure altre virtù, nella proposta di un’architettura mnemotecnica, mnéme, e nello schema di relazioni e comportamenti, areté, per divenire, con le opportune norme pragmatiche, nòmos fondato su analitica giustizia, thémis, tra pari.


Clipeomanzia


Clipei non enarrabile textum”, così definito da Virgilio nell’VIII libro dell’Eneide (al verso 625), appare quasi “un buco vertiginosamente prospettico, una sfera di cristallo fitta di fantasmi futuri”, intessuto com’è dai rapporti al cui centro sarebbero confluite le onde della spiaggia di Lavinium, spumeggianti di simmetrie eloquentemente destinate all’emersione simbolica dell’intero poema.


Iconicità dell’ekphrasis


La pelta pseudoesiodea di Eracle sembra non la più ridondante, ma certo la maggiormente movimentata: “pareva che il mare ondeggiasse e che i delfini veramente nuotassero”. In essa “erano raffigurati l’inseguimento e il contrattacco… dodici teste di serpenti incutenti indicibile orrore… torme di selvaggi cinghiali e di leoni… il combattimento dei Lapiti armati di lance”. Nell’iperbole drammatica dell’ekphrasis, un ingrandimento allucinato dei particolari si dissocia dall’insieme per andare alla conquista di una tale autonomia teatrale da amplificare, quasi con modalità sinestesiche, la meraviglia dello spettacolo in un’intimidatoria attesa. Tanta ansia ingigantisce e sospende contemporaneamente il traslato, bloccandone il moto in una vertigine da trompe l'œil: “la fatica era eterna, e la vittoria non arride mai e incerta rimaneva la gara” (310-11).


Per il retore Ermogene di Tarso, le virtù dell’ekphrasis sono visibilità e chiarezza, ma certo non è meno importante che il modo dell’espressione coincida con l’oggetto, poiché, aggiunge Luciano: “L’eloquenza risvegliata dallo splendore del suo modello, produce discorsi che gli assomigliano”. Proprio dell’ekphrasis è l’iconicità, il suo rappresentarsi più metaforica che arbitrariamente metonimica, non nel sostituirsi, dunque, ma nel sovrapporsi.


Dell’Invenzione dell’Impresa


E’ su queste basi che l’erudito Paolo Giovio (1483-1552) sembra dettare le regole di formulazione dell’Invenzione ovvero Impresa: “S’ella deve aver del buon, bisogna ch’abbia cinque condizioni. Prima, giusta proporzione d’anima e di corpo. Seconda, ch’ella non sia oscura, di sorte, ch’abbia mestiero della Sibilla per interprete à volerla intendere, né tanto chiara ch’ogni plebe l’intenda. Terza, che sopra tutto abbia bella vista, la qual si fa uscire molto allegra, entrandovi stelle, soli, lune, fuoco, acqua, arbori verdeggianti, istrumenti meccanici, animali bizzarri e uccelli fantastici. Quarta, non ricerca alcuna forma umana. Quinta, richiede il motto, che è l’anima del corpo, e vuole essere comunemente d’una lingua diversa dall’Idioma di colui che fa l’Impresa, perché il sentimento sia alquanto più coperto. Vuole anco essere breve, ma non tanto che si faccia dubbioso; di sorte che di due o tre parole quadra benissimo, eccetto se fusse in forma di verso, ò integro ò spezzato” (Ragionamento di monsignor Paolo Giovio sopra i motti e disegni d'arme et d'amore che comunemente chiamano imprese).


Heptà epì
Thébas


Nella rassegna eschilea degli episemi degli scudi, la cui teoria compare negli Heptà epì Thébas (387), si dice che l’arrogante Tideo, “alle pretidi porte”, smani sorreggendo un’insegna superba: “il cielo cesellato, fiammeggiante di stelle, e una luna piena nel mezzo campeggia splendente; il più venerando fra gli astri, l’occhio della notte, su tutto si staglia”.


Se notte di morte a lui sugli occhi scenderà, allora sì che rettamente e a giusto nome notte spetterà a lui che porta quest’insegna tracotante. – escogita Eteocle secondo la legge del contrappeso - Così egli stesso su se stesso profeterà la dismisura sua. Per proteggere questa porta io contrapporrò a Tideo il probo rampollo di Astaco: è di alti natali, onora il trono di Vergogna e sprezza tracotanti accenti. A turpi gesta recalcitra, esser vile non ama. E’ germinata la sua radice dai seminati (da Cadmo, fondatore della città) uomini (gli Sparti, nati dai denti del drago) che Ares risparmiò, sì che veramente indigeno egli è, Melanippo” (traduzione di Franco Ferrari).

 

Cavalli gemelli

 

Alla boria Eteocle pensa di opporre la modestia, allo straniero prepotente un umile autoctono, discendente diretto del capostipite della nobiltà tebana, che già nel suo nome contiene un’impresa, quella d’una divinità equina, come forse, secondo l’ipotesi di Fritz Schachermeyr (“Poseidon und die Entstehung des griechischen Götterglaubens”, 1950), dovette manifestarsi Posidone (Posei-das, Sposo della Potnia, Signora della Terra, Demeter, Da-mater) nella cosiddetta "tavoletta di Pilo", che tratta delle offerte a I-QO.

 

Come un dio fenicio della fertilità, Aliyan Ba'al, dal titolo di Ba'al Ars, Signore della Terra (o Ba'al zebul, Signore della profondità) è dio infero, “sotterraneo”, e in particolare delle acque sotterranee, che tende a estendere il suo dominio anche sul mare.

 

A Telpusa, in Arcadia, si venerava l'irata Erynis (corrispondente all'arcaica "Demetra Nera", dalla testa equina, del santuario ipogeo di Figalia), trasformatasi in giumenta che, ingravidata dal bestiale stupratore, partorì, oltre all’ombra di Persefone, Despena (Das-potnia), un nigricrinito Erion (o Arion), alata, immortale, magica cavalcatura di Adrasto, che a Tideo aveva dato in sposa una figlia. A tale archetipo, ambiguamente, ma in modo pertinente, si riferisce, anche nel nome, Melanippo, l'eroe tebano opposto al marito di Deipile, madre di Diomede.

 

Un antenato del presepe

 

Sacri a Poseidon, da allora, i cavalli lo furono anche a una delle incarnazioni della Grande Madre, Triplice Dea, la Luna, e con gli zoccoli pertanto la onorano lasciando un'impronta falciata.

 

Da Melanippa (Cavalla Nera), invece, nascevano i due gemelli dell' Anno Nuovo (Dioscuri, figli divini), successivamente esposti sulla montagna, quasi come se la Madre Terra fosse accovacciata nell'atto di presentarli ai pastori (mistagoghi), nella rivelazione dei Misteri.

 

Il carro

 

Il carro a due ruote di Adrasto, al quale la Pizia aveva suggerito di aggiogare “il cinghiale e il leone che si combattono”, simbolo calendariale, allude al Grande ciclo che si affermò quando troppo breve fu considerato il periodo di regno concesso al divino paredro, e i tredici mesi vennero prolungati in cento lunazioni, nell'ultima delle quali si realizzava, con una certa approssimazione, la coincidenza dell'anno solare e di quello lunare.

 

Il carro di Adrasto risulta associato al calendario planetario pure in virtù del numero delle porte di Tebe, come al trionfo che lo celebra nelle lame dei Tarocchi.

 

Elefante vs maiale, Leone vs cinghiale

 

L' episema dello scudo di Tideo, che apre la rassegna dei Sette contrapposti ad altri Sette, è anch’esso un trionfo lunare; quello di Polinice, che chiude il cerchio, un trionfo solare; Tideo il cinghiale e Polinice il leone, ambedue alla ricerca di una violenta successione su un trono usurpato e da rivendicare. Ambedue aggiogati metaforicamente, al carro di Adrasto, di cui hanno sposato ciascuno una figlia. Prima ancora che al Cavallo Nero, Arione, e alla di lui sorella misterica, Tideo, vero doppio di Polinice, gemello di Eteocle, è affratellato elettivamente per singolare sorte similare, alle sue stesse vittime, ché già s’era macchiato, in Calidone, del crimine fratricida, assassinando un altro Melanippo, cinghiale totemico.


Fiaccola, Folgore, Rocca


Nella tragedia di Eschilo, il messaggero che informa dell’arrivo degli assedianti, descrive le imprese poste sugli scudi, composte in alcuni casi di “corpo e anima”.


Capaneo, sfidante alla seconda porta (Elettra), come insegna mostra un uomo nudo con una fiaccola: “brucia quel fuoco che impugna come un’arma”. Difatti, una scritta, a lettere d’oro proclama “brucerò la città” (préso pòlin). Eteocle confida che: “giustamente su di lui cadrà incandescente folgore, nient’affatto consimile a meridiane vampe. Sia contrapposto a lui guerriero di tempra ardente, pur se nella bocca neghittoso, dico di Polifonte l’energia, fidato presidio grazie al premuroso affetto di Artemide tutelare e degli altri dei”.


Una rocca ha effigiata sullo scudo chi (Eteoclo) attacca  le Neiste soglie difese da Megareo. Il fuoco eruttante di Tifone è effigie di Ippomedonte, contrastato, alla porta di Atena Onca, dal fiammante dardo di Iperbio.


Apparire o essere


Al quinto varco opposto, la Borrea porta, lì presso al tumulo di Anfione nato da Zeus”, Partenopeo “sul tondeggiante usbergo” mostra la Sfinge, “infamia della città”, al difensore Attore.


Schierato alla porta Omoloide, il veggente Anfiarao, invertendo l’ordine dei due elementi semantici che ne compongono il nome,  impreca contro Polinice, apostrofandolo come “discordia molta”, neikos poly. “Bella impresa davvero e agli dei gradita, e nobile retaggio ai posteri, devastare la città paterna e gl’indigeni dei, straniero esercito spingendo innanzi!... io per me ingrasserò queste zolle, indovino che giacerà sotto nemica terra…”. Il senso antifrastico del sintagma si rispecchia su un disco senza insegna, quasi avesse perso la sua funzione identificativa o difensiva che fosse, di chi non vuole apparire, ma essere. A questo figlio di Oicleo, “assennato e giusto, valoroso e pio, interprete autorevole degli dei, mescolatosi a dispetto del suo cuore con empi ribaldi dalla bocca sfrontata”, come pure riconosce Eteocle, vien schierato “qual portinaio che gli ospiti dispreggia”, Lastene.


Scuta insignia


I trattatisti rinascimentali individuano in quegli scudi una prima testimonianza di emblemi configurati con vere e proprie imprese araldiche: figure e motti che icasticamente rafforzano il carattere e l’intenzione di una volontà che si fa rappresentare in immaginoso aforisma. E l’araldica è infatti linguaggio figurato, lo stemma un contrassegno che esprime l’impresa, l’illustrazione di un nome per sollecitare la virtù della memoria e ricordare un evento.


Il parere comune vuole che gli stemmi si siano stabilizzati e diffusi dopo il mille. Ma nell’antichità, come abbiamo visto,  non mancano delle eccezioni. “Scuta insignia” dei Cimbri sono menzionati da Ammiano Marcellino (XVI, 12). Nell'inno De Cristiani militibus, Prudenzio scrive delle “Caesaris vexilla linquunt, eligunt signum crucis”.  La storiografa e principessa bizantina, Anna Comnena, nell'Alexiadis (X), documenta la consuetudine di distinguere le milizie feudali, attraverso l'uso di differenti colori: “Anno 1188 ... Rex Franciae et gens sua susceperunt cruces rubeas et rex Angliae cum gente sua suscepit cruces albas et Philippus come Flandriae suscepit cruces virides”. Nei codici miniati latini e greci dei secoli X e XI non è affatto insolito trovare vere e proprie insegne “pre-araldiche”, sia bizantine che normanne, pertanto in varie regioni italiane, specie del meridione, erano già in voga simboli che hanno molti dei caratteri propri di vere “pezze” araldiche.

 

In principio, si trattava di figure geometriche, zoomorfe, fitomorfe, antropomorfe, mitologiche, allegoriche e ai fregi andavano attribuite precise funzioni simboliche, indicanti per metafora i fasti della comunità, del clan, del casato, della famiglia, con successioni, alleanze, matrimoni, oppure tradizioni, virtù, caratteri, glorie, per cui gonfaloni e stendardi, nel manifestare e la grande importanza e il largo uso di simboli, fanno principalmente intravvedere quelle relazioni che tra i segni visibili e i loro significati si sono andati man mano stabilendo. Sovente comunque, a chiarimento dell'allusione iconografica, si aggiungono motti, o semantèmi verbali, che sottolineano il senso di quelli icònici, ne chiariscono  o ne precisano le caratteristiche.

 

Contrasto di colori

 

Nel soffermarsi semplicemente sulla scelta dei colori, risalterà l’immediatezza della doppia norma. I colori “fondamentali” occupano il campo dello sfondo al fine di far risaltare meglio, per contrasto, la principale figura dello stemma e servivano a comporre bandiere, orifiamme e livree. La scelta dei colori aveva dei risvolti pratici per un riconoscimento privo di equivoci dei membri al seguito di un determinato signore che dovevano farsi distinguere già da lontano, anche dalle gualdrappe dei cavalli e, fino al secolo XVI, persino dalle vesti, e soprattutto in caso di scontri. Con i colori fissi del casato si componevano figure diverse, ma sempre in modo che abbinati nella mischia fossero ben riconoscibili e distinti dagli altri.

 

In territorio friulano, avverte Giovanni Perusini, in “Organizzazione territoriale e strutture politiche del Friuli nell’Alto medioevo” (1974), i colori nero e giallo, propri dell'impero, contrassegnavano le quattro famiglie degli alti dignitari; quaranta casati esponevano le bandiere dell'Austria, bianco e rosso, mentre  otto famiglie, verosimilmente vassalle del patriarca, usavano il giallo e l'azzurro, colori della città di Aquileia e dunque del patriarcato; ventun famiglie il nero e il bianco; dieci il bianco e l'azzurro; tre il bianco e il verde; due il giallo e il rosso. In base a tali colori è quindi agevole  identificare, di massima, la distribuzione di giurisdizioni e castelli, e di conseguenza delle milizie, che, in caso di guerra, si sarebbero schierate dietro le rispettive insegne.

 

Figure parlanti

 

Uno studio integrale dell’araldica riguarda proprio questo dinamismo simbolico del linguaggio figurato che, nel rappresentare una “condizione” (di status giuridico, storico, politico, religioso) va soggetta a inevitabili, e a volte anche impercettibili, variazioni. Pertanto gli stemmi si evolvono con aggiunte o modificazioni, in seguito a conquiste di nuovi domini, nozze, successioni, e così via.

 

Al simbolo “parlante” della scala, gli Scaligeri applicheranno l'aquila di vicari imperiali; Cangrande, Mastino II e altri associano alla prima una seconda figura, a sua volta “parlante”, di cane. E il mercenario Facino Cane, condottiero per la famiglia degli Scaligeri, si ispirò proprio a quelli nell'adottare una celata sormontata da un levriero, prima di passare agli avversari Carraresi, le cui insegne col carro subiscono diverse aggiunte, nel corso del secolo XIV. Dopo le nozze con Tiso VIII Novello da Camposampiero, al plaustro di Cunizza da Carrara si applica il leone rampante del condottiero guelfo.

 

Simmetria

 

“Alleanze” matrimoniali di famiglie che uniscono due stemmi, in partitura o accostandoli, per ragioni di euritmia, negl'inquarti, rivoltano figure ben definite: nel primo quarto un'aquila ha il capo diretto in un senso, nel secondo in quello opposto, in modo da dare all’insegna una certa simmetria.

 

Il portale principale di palazzo di Venezia (1460 circa), ne fornisce esempio, ai lati degli stipiti reca un leone rampante nell'arme di destra e lo stesso leone rivoltato in quella di sinistra, derivati dall’impresa del cardinale Pietro Barbo, proveniente dalla ricca famiglia di mercanti veneti, il quale, una volta eletto al soglio pontificio, venne dissuaso dal chiamarsi  Formoso II (dal latino formosus, bello, per il suo bell'aspetto), o Marco II (in onore del protettore della sua città d’origine, con cui il Vaticano era in conflitto) e scelse allora Paolo II.

 

Alle aggiunte introdotte dalle “alleanze” si affiancano ampliamenti dovuti a concessioni o variazioni intervenute per eventi storici precisi. Nel 1395, quando Gian Galeazzo è elevato a dignità ducale, lo scudo dei Visconti di Milano venne inquartato con quello dell'Impero, mentre, in precedenza, da alleato di  Carlo VI (che aveva sposato la di lui nipote Isabella, figlia di Stefano II di Baviera) era stato inquartato con i gigli di Francia, e, in occasione delle nozze di Galeazzo II con Bianca di Savoia, di quelle di Filippo Maria con Maria, o di Galeazzo Maria con Bona, venne “partito” con la croce bianca in campo rosso.

 

Dei Borromeo si registrano classicamente ben quattro scudi: “di rosso al freno d'argento”; “di rosso al liocorno argenteo rampante verso il sole d'oro”; “di rosso al cammello (ma è un dromedario) assiso avente sul dorso una corona d'oro”; “inquartato d'argento all'Humilitas di nero coronata d'oro”. Nonostante fosse già di suo abbastanza ricco, e di simboli d'alto pregio, venne varie volte modificato e uno degli elementi più singolare, l’impresa scritta in caratteri gotici neri in campo d'argento, che nel secolo XV era l’impresa del “Luogo Pio dell'Umiltà” fondato dalla famiglia, fu assunta da san Carlo come capo dello scudo, dall’ arcivescovo (pure di Milano, nel 1587) Francesco Federico come seconda figura nel capo partito, da un altro Federico (IV conte d’Arona) quale scudetto nel cuore dell'arme, da Edoardo, “Domini pontificiae praepositus”, come seconda figura di una targa partita, con l'aggiunta “Victrix Invicta” e i tre anelli; dal cardinale Vitaliano, legato di Romagna, come fascia d'uno scudo troncato (Inquartato, fiancheggiato in arco di cerchio, col capo e la campagna… ). Pure le altre figure della famiglia furono spostate con grande libertà da disegnatori e incisori, ma indubbiamente non per puro arbitrio esecutivo, semmai per volontà dei committenti.

 

Altre variazioni si suppongono motivate dalla necessità di distinguere i vari rami d'un’unica famiglia. Il ramo primogenito degli Challant (da Bosone infeudato dal conte Tommaso I di Savoia) portava: “d'argento al capo di rosso alla banda di bastardigia di nero”, talvolta inquartato con lo stemma dei visdomini di Aosta (d'oro all’aquila di nero, coronata, membrata, rostrata di rosso); gli Challant di Cly (da Bosone IV e Gotofredo) recavano tre crescenti rovesciati sulla banda di nero; gli Ussel (da Ebalo II) sempre sulla banda una stella d'oro al centro; gli Ayamavilles (da Amedeo figlio di Aimone) una colomba d'argento; i Varey (da Amedeo figlio di Bonifacio) una moscatura d'oro; quelli di Chatillon un anello d'oro in capo della stessa banda, mentre il ramo baronale una palma d'oro. In quanto visconte d'Aosta, ci fu chi fece ricorso al sigillo viscontile con l'aquila, anziché all'arme di famiglia.

 

Non si possono neppure dimenticare le errate riproduzioni di “stelle” che divengono “gigli” (Mezzavacca), un “trinciato” d’argento e di rosso modificato in argento e verde (Gozzadini), una sbarra in luogo di una banda (Albergati), o che a un “capo d'Angiò” si ometta il lambello e lo si trasformi in un capo con tre gigli (Marescotti).

 

Guelfi e Ghibellini

 

Una descrizione acritica dei contrassegni distintivi, delle fogge degli scudi o del modo di accollare o addossare le decorazioni cavalleresche, potrebbe non riuscire a centrare il valore simbolico di qualche figura. Il “capo” blasonato come: d'oro all'aquila di nero (ovvero “capo dell’impero”) si diversifica nei particolari (della stessa aquila coronata, bicipite o entrambe le cose, della corona, della lingua, ecc.) che vanno quindi notati anche quando furono trascurati dal disegnatore. A riguardo dell'insegna dell'impero di Bisanzio: “aquila bicipite d'oro coronata sulle due teste” occorre precisare che il campo dev'essere di porpora e non di rosso. In Lombardia, il capo dell’impero è certamente indice di parte ghibellina, contrapposta alla fazione guelfa del capo d'Angiò, diffuso in Emilia. Non è poi detto che il “capo d'azzurro seminato di gigli d'oro” equivalga automaticamente al capo antico del regno di Francia, concesso solo a poche famiglie particolarmente benemerite. Questo va specificato perché possono esserci capi uguali, come, per città diverse, esistono davvero stemmi identici: Padova, Milano e altri comuni hanno lo scudo d'argento alla croce di rosso; Novara, Asti, Pavia ecc.: di rosso alla croce d'argento (come per la Savoia, il cui capo è uguale a quello di Malta).

 

In segno di rivolta

 

La Lega Lombarda, in lotta contro Federico Barbarossa, adottò il medesimo simbolo di potere, l'aquila, “rivoltandone” il capo. Solo molto più tardi apparvero rapaci cosiddetti “guelfi”, pure essi col capo orientato in senso opposto. Tra altri moltissimi vessilli dei cavalieri milanesi, il carroccio di Milano ostentava “grandissimo gonfalone bianco con in mezzo una croce rossa”. Un bassorilievo della Porta Romana raffigura il corteo preceduto da un frate recante il tipico vexillum publicum, fregiato dalla croce patente che termina con tre strisce (“fiamme”). Oltre a questo del Comune, c'era il drappo della  Civitas, bianco con la vipera azzurra, antica immagine militare longobarda, in età comunale stendardo delle truppe e poco dopo stemma dei Visconti, di stirpe longobarda. Terzo pennone, del popolo, era Sant' Ambrogio e una quarta bandiera si presentava semplicemente troncata o ripartita di bianco e di rosso.

 

All'aquila imperiale (Par, VI, l sgg., XIX, l sgg., XXVII, 50), alle chiavi della Chiesa (Purg, IX, 118, Par, V, 57, XXVII, 50), ai gigli di Francia (Purg, VII, 105, XX, 85; Par, VI, 100), o a quello fiorentino “per division fatto vermiglio” (Par, XVI, 152), si riferisce spesso Dante e, nella Divina Commedia, cita le insegne delle signorie degli Scaligeri, Ordelaffi, Polentani, Visconti (Inf, XXVII, 41, 45; Purg, VIII, 79; Par, XVI, 71 ) e di famiglie illustri, quali Scrovegni, Lamberti, Pagani, Gianfigliazzi, ecc. (Inf, XXVII, 58 sgg., XVIII, 48; Par, XVI, 110), nonché altri termini araldici (Inf, IV, 117, V, 83; Par, XVI, 103, 127, 154, XVIII, 113 , ecc.), ricorrendo esplicitamente alla simbologia del grifone, in relazione al Cristo (Purg, XXIX, 108).

 

Aquila bicipite

 

Nell’Orlando furioso (1532) di Ludovico Ariosto vengono citate le insegne di Leone Cazaro, figlio dell'Imperatore Costantino IV Copronimo: “E l'aquila de l'or con le due teste/ porta dipinto nello scudo rosso”(XLV, 69),  e di nuovo l'arma imperiale bizantina è definita: “… l'augel d'oro/ che nel campo vermiglio avea due teste” (XLVI, 52). Tuttavia, in termini non poetici ma araldici, non si tratta né di un colore (rosso) né dell’altro (vermiglio), bensì di porpora. Nel X canto: “tu vedi ben quella bandiera grande/ ch'insieme pon la fiordiligi e i pardi (gigli di Francia e i leopardi d'Inghilterra)… la prima appresso è il gonfalon reale/ che il vento tremolar fa verso il monte,/ E tien nel campo verde tre bianche ale…” (77-78), e di seguito tantissime altre bandiere: “quel segnale/ ch’a due corna di cervio, e mezza fronte… in tre pezzi una spezzata lancia… la folgure… il grifone… la bilancia… quel giogo che due serpi assozia… la ghirlanda in campo azzurro”, e poi ancora fino all’89a ottava. Nel canto XIV (ottava 4) menziona le “ricche ghiande d'oro” dei Della Rovere e l’aragonese “baston giallo e vermiglio”.

 

La spiegazione di come abbia avuto origine l'aquila bicipite dell'impero bizantino si legge ne “L'Italia liberata dai Goti” (1547) di Gian Giorgio Trìssino dal Vello d’Oro (libro II): “Il grande imperio, ch'era un corpo solo,/ avea dui capi: un ne l'antica Roma,/ che reggeva i paesi occidentali,/ e l'altro ne la nuova, che dal volgo/ s'appella la città di Constantino:/ questa era capo a tutto l'orïente;/ onde l'aquila d'oro in campo rosso,/ insegna imperïal, poi si dipinse,/ e si dipinge, con due teste, ancora”.


Torquato Tasso, nella “Gerusalemme liberata” (1575) declama: “vedi appresso spiegar l'alto vessillo/ col diadema di Piero e con le chiavi” (canto I, ottava 64), “…nel vessillo imperiale e grande/ la trionfante Croce al ciel si spande” (I, 72). Lo stemma di Rinaldo si trova nel canto III, ottava 37: “E il bianco augello/ conosce Erminia nel celeste campo”.

 

L'aquila bicipite d'oro in campo purpureo fu dunque insegna dell'impero d'Oriente (aquila bizantina), mentre l'aquila nera in campo d'oro lo fu per il Sacro Romano Impero. La porpora e l'oro rimasero i colori del gonfalone della Chiesa romana e tuttora lo stendardo del comune di Roma dovrebbe essere di porpora con le lettere d'oro S.P.Q.R., anche se la porpora viene sostituita dal rosso.

 

Trionfi

 

Nel tentativo d'interpretare figure e colori del blasone nei loro significati, non sempre evidenti, l’esercizio del senso critico trattiene dallo scadere nel meraviglioso a tutti i costi. Nei Trionfi del Petrarca ritroviamo, tra le altre formulate per le dame della corte ducale di Milano, l'impresa: “in campo verde un candido ermellino”, quale simbolo di purezza. Come, l'oro, immune da ogni ossidazione, fu allegoria dell'onore e del merito, l'argento segno di preziosità, di fedeltà, e talvolta il popolo, in contrapposizione al ceto nobile, rosso. Alludente questo al sangue, all'amore, al fervore della vita, al coraggio, alla potenza, alla grandezza, al dominio e quindi alla regalità (insieme col porpora). L'azzurro si richiama al cielo, alla santità, al desiderio di elevazione, alla fede, alla serenità, ma significa pure giustizia, lealtà, buona fama. Il verde notoriamente insinua speranza, cortesia, bontà, pace, ecc.

 

Come per i colori, così per le figure dello scudo sono state fornite interpretazioni che potremmo definire quanto meno ingegnose. A cominciare appunto dall'aquila e dal leone, che rappresentano l'autorità, la potenza, il dominio, la sovranità. L'unicorno simboleggia la purezza e sovente Cristo; il pavone, “pennuto di Venere, pronto a combattere per la conquista amorosa”, orgoglioso della sua livrea, fu inteso come il simbolo della resurrezione; il pellicano, che nutre i piccoli col suo sangue, allude alla carità eroica; il guerriero a cavallo rappresenta gli ideali della cortesia medioevale, quali l'audacia, la generosità, la devozione, la protezione dei deboli e la difesa della Chiesa.

 

Il simbolo relativo alla funzione o alla carica passa, in molti casi, dal sigillo allo stemma. Quando alla radice del blasone sono simboli espressi nei sigilli, è facile rintracciare nella loro importanza le matrici degli stemmi a cui affidare, in varie combinazioni, grande risalto. La figura del castello, assunta da feudatari aventi giurisdizione nei sigilli che convalidavano documentazioni e sentenze, divenne, in un secondo momento, “pezza araldica” dagli svariati colori. Fino all'XI secolo gli antenati dei Visconti appartenevano alla nobiltà lombarda minore e quando, nei primi del '200, ottennero il titolo di visconti (cioè vice-conti), lo fecero diventare nome di famiglia.

 

Il motivo dei sei colli dei Chigi, sovrapposti in tre ordini, ciascuno recinto da una corona, si confonde col triregno, cosicché una figura dell'arme papale si ripropone simbolo di potere.  E, in età barocca, l’immagine viene estratta dallo scudo e, non sempre con garbato arbitrio, impiegata come elemento decorativo: i gigli farnesiani si moltiplicano per formare un “giardino”, le tre api dei Barberini divengono un “volo”.

 

In architettura, la pianta di Sant'Ivo alla Sapienza, disegnata dal Borromini per richiamare l'ape, da sezione icnografica si traduce in prospettiva ornamentale. In pittura, Pietro da Cortona, nella volta del salone del palazzo che celebra la magnificenza di Urbano VIII, crea quella straordinaria allegoria della Provvidenza entro un complicato moto angelico, sullo sfondo di un cielo terso, di rimpetto a cinque figure femminili e qualche angioletto che recinge di rami d'alloro le api o regge le chiavi e il triregno papale. Nel salone dei “Fasti Farnesiani” nel palazzo di Caprarola, il centro della volta è occupato dal grande scudo con i gigli, ma in tutti i locali della splendida residenza a decine tali sono dipinti e scolpiti e quel mirabile scalone elicoidale (Scala regia), nella trabeazione della balaustrata, reca tutta una serie di gigli e un'altra sequenza mostra alle pareti dei ripiani.

 

Disarticolazione

 

Eppure non è soltanto in tali ambienti artistici che ebbe inizio l’esercizio di gusto simbolico di quell’articolare prima, per smembrare poi, e dunque far fuoriuscire dagli stemmi le figure, impiegandole all’esterno del loro naturale contesto, in modo “spregiudicato”, quali decorazioni od ornati allusivi, perché già dal XV secolo, nel castello sforzesco di Milano, e in altre rocche del ducato, non soltanto il biscione e l'aquila si presentano avulsi dagli scudi e collocati entro medaglioni o formelle, ma pure le altre varie imprese dell'emblematica visconteo-sforzesca, quali la colomba, i tizzoni coi secchi, il cane col pino, il cotogno di Cotignola.

 

Dissimmetria

 

Certo è che le manifestazioni più fantasiose di tale tendenza si annoverano in epoca barocca, quando persino la forma dello scudo assume una vivacità di curve di contorno per sconfinare in briosa dissimmetria, cui corrisponde altrettanta disuguaglianza, irregolarità, bizzarria, difformità, giochi di prospettiva, e di scorcio e di sbieco, sproporzione tra figure araldiche ed elementi esteriori del blasone. Movimenti strani e piacevoli di linee fantasiose concorrono all’elaborazione dell’intrattenimento ottico, non più guidato da rigide regole araldiche, ma da una felice risoluzione creativa.


Quadraturismo

 

Ne “L'architettura illusionistica nelle decorazioni romane. Il quadraturismo dalla scuola di Raffaello alla metà del '600” (1969), Italo Mussa (1939-1990), per “quadraturismo” intende non tanto la decorazione di soffitti e di pareti con motivi architettonici, ma altresì la pittura di scene, figure umane, simboli e stemmi. Il cornicione della Sala Regia nel palazzo del Quirinale, dipinta tra il 1616 e il 1617 per Paolo V, è decorata da una splendida infilata di scudi; altre insegne araldiche sono scolpite in un soffitto di mirabile legno dorato. E nel loggiato sinistro del medesimo salone, alle varie scene sacre, di tanto in tanto, sono inframmezzati emblemi papali. L'intero scudo degli Aldobrandini (d’azzurro alla banda doppiomerlata d'oro, accompagnata da sei stelle d'oro di otto punte), nella sala Clementina in Vaticano, affrescata nel 1596-97, appare sorretto da angioletti ed, entro una splendida architettura prospettica, sormontato dalle “sacre” chiavi e dal triregno. Nella sacrestia vecchia di S. Giovanni in Laterano, Giovanni Alberti, con una successione di piani dal basso verso l’alto, costringe lo sguardo contro un “oculo” aperto sul cielo, dove un angelo regge la stella con (dodici) punte in ogni direzione, mentre più sopra due angeli reggono la tiara di Clemente VIII. In San Silvestro al Quirinale, le stelle nel cornicione di base hanno otto vertici, mentre l’oculo circolare spia lo Spirito Santo. Nel palazzo Lancellotti ai Coronari, divenuto successivamente simbolo dell’aristocrazia “nera”, Agostino Tassi dipinse due grandi loggiati sovrapposti, nel superiore dei quali, ai lati degli archi, sporgono in rilievo stelle a otto raggi.

 

Simbolo o decorazione

 

Il principale modello al quale si ispirarono architetti e scultori del secolo XVIII fu l’opera di Filippo Juvarra: “Raccolta di targhe fatte da professori primari in Roma, disegnate ed intagliate dal Cav. Filippo Juvarra, architetto e accademico di S. Luca in Roma, appresso G. M. Salvioni stampatore Vaticano, MDCCXXII”. Lo scopo che si propose il grande messinese non era affatto di comporre un metodico stemmario, bensì di presentare degli esemplari di blasoni composti con eleganza, equilibrio e armonia, se non proprio genialmente concepiti. Tutte le targhe presentano la tipologia di uno stile a un tempo fastoso e inventivo, arricchite come sono di validi contorni e corniciature, o gustosi “cartocci”, a recingere gli emblemi. Molti  dei quali offrono grande varietà ornamentali di nastri, festoni di foglie, rami frondosi, mascheroni, conchiglie, non più cariche del significato araldico di simbolo di pellegrinaggio e ormai ridotte a elemento decorativo.

 

Un motivo floreale policromo su sfondo color crema caratterizzava già i Tarocchi Visconti-Sforza, detti “Pierpont-Morgan”, di Bergamo, e uno analogo, ma più delicato, seppur con fiori simili, era ripreso sul margine esterno di ciascuna delle carte del “Cary-Yaledeck, della collezione  di New Haven. Forme geometriche e imprese delle famiglie, punzonati, ossia punteggiati a rilievo, ornano sfondi dorati o argentati; in oro sono anche alcuni dettagli delle illustrazioni, soprattutto nei trionfi e nelle figure; mentre le tinte brillanti, quali il rosso, l'azzurro, il verde, il giallo e il nero occupano le immagini colorate, contribuendo a fornire all’insieme quell'aspetto che hanno le miniature dei testi medioevali.

 

Oriente-Occidente

 

Secondo la classificazione di Michael Dummett, al  gruppo della corte milanese visconteo-sforzesca (di tipo C), e dunque all'intero gruppo occidentale (comprendente anche il mazzo marsigliese), si contrappone il gruppo B che individua  quello stile orientale (usato nei dintorni di Venezia, Ferrara e lungo la costa adriatica fino a Pesaro), che aveva esteso la sua influenza oltre i limiti del ducato dagli Estensi: per esempio, mazzo Rothschild (Museo del Louvre, a Parigi, tranne il cavallo di spade, a Bassano del Grappa), quello detto di Carlo VI (alla Biblioteca Nazionale di Parigi), d’Ercole I d'Este (Cary Collection, Biblioteca dell'Università di Yale, a New Haven), di Alessandro Sforza, duca di Pesaro (Castello Ursino, a Catania), e altri meno importanti. Una relativamente maggiore economicità di queste carte ha fatto supporre che la loro produzione cominciasse a rivolgersi a clientela meno raffinata e colta, la cui istruzione non avrebbe riconosciuto agilmente le allegorie in esse raffigurate, che, secondo i principi morali allora vigenti, determinavano il valore anche nel gioco, rendendosi così necessari pragmatici riferimenti numerici, sia pure in cifre romane. Il gruppo corrispondente al tipo A di Dummett, indubbiamente il più "popolare", in stile meridionale, nasce a Bologna, per approdare alle Minchiate fiorentine, e raggiungere infine la Sicilia.

 

Virtù

 

I 22 Arcani Maggiori, articolati nelle tre serie di settenari ai quali sfugge il matto, – conferma Franco Cardini, su I Tarocchi: strumenti di gioco e strumenti divinatori fra ‘cultura di corte’ e ‘cultura popolare’, in Rossi P. A. e Li Vigni I. (a cura di): “Il Ludus Triumphorum o Tarot: carte da gioco o alfabeto del destino” (Nova Scripta, Genova 2011) - s’ispirano a una tipologia simbolica che, come più volte è stato notato, rinvia al sistema delle sette Virtù (le tre teologali e le quattro cardinali)”, ispirato alla forte influenza che sulla poesia medievale e in genere su tutta la letteratura cristiana aveva esercitato, oltre che Tertulliano e Ambrogio, anche l’epica lotta spirituale dell'anima (Psychomachia), contro l'idolatria, composta da Aurelio Prudenzio Clemente, che, negli ultimi anni si era ritirato dalla vita di corte, alla quale era stato chiamato da Teodosio I, per diventare un asceta, astenendosi completamente dal mangiare cibo animale. In meno di mille versi, nella Psychomachia, descrive il conflitto tra virtù e corrispondenti vizi, quasi fosse una battaglia dell'Eneide o il contrappasso teorizzato da Eschilo nella rassegna degli episemi dei sette scudi contrapposti a Tebe: il paganesimo soccombe alla fede, la lussuria risulta sconfitta dalla castità, l'ira che attacca la pazienza si autodistrugge, ecc., insomma un’allegoria poi ripresa nella “Visio Willelmi de Petro Plowman”, in The Somonyng of Everyman, come nel Roman de la Rose.

 

Il codice cavalleresco

 

Attorno all'anno 1400 viene indicata la probabile datazione delle carte occidentali più antiche catalogate, al Museo Fournier de Naipes de Álava (Spagna), col nome "Italia 2". In esse il seme di Spade proviene indubbiamente dalle suyûf arabe, cioè  "scimitarre", in seguito raddrizzate alla maniera europea, lasciando che, in alcune aree, soprattutto nell'Italia settentrionale, la trasformazione non avvenisse. L’asso, stranamente diviso in due metà (sempre che non sia banale esito di un, pur possibile anche se improbabile, mancato allineamento di matrici), è portatore del significato allegorico di reminiscenza arturiana, spada infissa nella roccia (San Galgano), e dimezzata per fallo fatale.

 

Pur simile, il “gonfalon del duca di Nortfozia” (“in tre pezzi una spezzata lancia”), incontrato nel capolavoro ariosteo), si riferisce a uno schieramento di combattimento, detto appunto lancia spezzata, perché, mentre un terzo accudiva i cavalli, due cavalieri combattevano smontati, spalla a spalla, con le lance accorciate dalla parte del calcio, per migliorarne la manegevolezza.

 

Inizialmente chiamata, nei miti gallesi, Caledfwlch, venne latinizzata da Goffredo di Monmouth in Caliburnus ("acciaio" ben calibrato, nel latino medievale); gli autori inglesi successivi mutarono il nome in "Caliburn", mentre per i contemporanei francesi divenne "Excalibur". Ma la prima origine andrebbe cercata nei miti norreni sulla spada Gram/Nothung conficcata nell'albero Barnstokk ed estratta da Sigmund, il padre di Sigurd/Siegfried. E’ la cristianizzazione della leggenda a porla nel cortile della cattedrale londinese. La versione francese del ciclo post-Vulgate collega l'Excalibur alla misteriosa Dama del Lago. Che si sia spezzata nel corso di un duello contro Re Pellinore, o in altro frangente, per Artù si tratterebbe comunque di una punizione dovuta all’infrazione compiuta contro il codice cavalleresco. Il dualismo viene mantenuto nella versione di Malory e la primitiva "Spada nella Roccia" (Caliburn), persa in combattimento, viene sostituita da una seconda, l’Excalibur che alla fine va restituita alla fatata forgiatrice.

 

Gli Amanti, ovvero la nuziale alleanza

 

I simboli araldici di famiglia (biscione, sole raggiante, tre anelli intrecciati) sono riproposti insieme con il motto "à bon droyt", sul mazzo visconteo dei Tarocchi. Non mancano delle varianti per via delle differenti interpretazioni (il matto è un mendicante col gozzo e la Luna viene rappresentata da una falce nella mano destra di una figura femminile).

 

I mazzi realizzati in occasione di matrimoni signorili riportano dipinti, in questo specifico caso, sulla carta degli Amanti, gli emblemi dei due casati che si alleano. Nel mazzo Cary-Yale, solitamente ritenuto più antico del Pierpont-Morgan, gli Amanti vengono immortalati sotto un baldacchino quale coppia che romanticamente si tiene per mano, un cupido bendato ad ali spiegate vola al di sopra, in terra invece un simbolo di fedeltà (probabilmente un cagnolino bianco) o, ancor più verosimilmente, un’immagine di castità (cioè quel candido ermellino in campo verde”, escogitato dal Petrarca). Gli stemmi alternati del biscione visconteo e della savoiarda croce bianca su fondo rosso intessono in serie l’intera frangia del baldacchino, inducendo a identificarli come marchio del matrimonio, contratto nel 1428, da Filippo Maria Visconti con la seconda moglie Maria di Savoia. Nel tarocco Pierpont-Morgan, la carta gli Amanti mostra una rappresentazione equivalente: la coppia si tiene per mano, accompagnata da un cupido, che però è ritto in piedi su di un piedistallo o una colonnina. In questo caso, i due personaggi sarebbero Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti, il cui sponsale fu celebrato tredici anni dopo (1441), oppure, posticipando di otto lustri al 1468, il figlio di Francesco Sforza, Galeazzo Maria, e Bona di Savoia, considerando sempre che il biscione fu mantenuto quale emblema di famiglia  pure dagli Sforza. A rafforzare una delle ipotesi è l'assenza di simboli sforzeschi nel tarocco Cary-Yale e il riscontro del nome dell’ultimo duca visconteo (“FILIP MARIA DUCHA”) sulle monete “virtuali”, usate come seme di Denari, il ducato aureo, sebbene quello realmente circolato con il motivo del cavaliere rechi un'iscrizione più impersonale (DUX MEDIOLANI, "signore di Milano"). Analoga considerazione varrebbe per il tarocco Brambilla, della Galleria d’arte di Brera, la cui numismatica restituisce sufficiente similitudine e che alcuni dettagli stilistici daterebbero a un periodo, anche se di poco, precedente il Cary-Yale deck.

 

Contese dinastiche


A Milano sarebbe accaduto quello che avvenne a Tebe ai discendenti di Edipo, perché, per acquisire il titolo, il rampollo di Gian Galeazzo, Filippo Maria (1392-1447), dovette affrontare e sconfiggere il cugino di suo padre, Estorre, figlio naturale di Bernabò. Gli riuscì di riprendersi le terre, grazie anche alle truppe di un capitano di ventura, Facino Cane, la cui vedova, Beatrice, era diventata sua moglie in seconde nozze. Ma, dopo averla mandata a morte per adulterio, si risposò con Maria di Savoia, al solo scopo di garantirsi l’alleanza dei confinanti. Minacciato poi dall'armata di Venezia, nel 1447, Filippo Maria richiese l’aiuto di Francesco Sforza, marito dell’illegittima sua primogenita, Bianca Maria. Da mercenario qual era, dal soldo degli uni il genero passò repentinamente a quello degli altri. Del padre, Muzio Attendolo, famoso uomo d'armi, aveva adottato il soprannome e, alla morte del suocero, in assenza di eredi maschi diretti, nel 1450, pretese la successione in luogo del designato Alfonso V di Aragona, re di Napoli. E, come quarto duca di Milano, mantenne stemmi ed emblemi araldici dei precedenti Visconti.


Nel ripercorre le iconiche vicende che hanno avuto per protagonisti i grandi mazzi storici d’origine marsigliese (quelle Paginae di cui sappiamo dal “Glossarium mediae et infimae latinitatis” di sieur Charles Du Fresne Du Cange, 1678), lombarda (a partire dalle carte prodotte da Bonifacio Bembo per Filippo Maria Visconti), ferrarese (le estensi Carte da trionphi, o quelle “dette di Carlo VI”), allo stesso modo di come abbiamo assistito all’evoluzione dello stile araldico, ne riscontriamo agilmente le medesime reminiscenze, analoghe citazioni, variabili che persino tendono a incrociarsi e rispecchiarsi, a volte soltanto apparentemente in ambito artistico, e in altre circostanze, in maniera meno evidente, in seguito a un’interpretazione più approfondita, simbolica, esoterica o riconducibile alla psicologia del profondo. L’iconografia dei tarocchi, come l’araldica, nel rispondere alla rigorosa sintassi delle libere associazioni freudiane, rinvia agli archetipi universali di Jung, il cui linguaggio ritorna alla sopravvivenza di antiche divinità.

 

La controriforma avrebbe ben presto avuto la meglio, nel meridione in particolare, eliminando dai Tarocchi “siciliani” Papa e Papessa (completamente), il Giudizio universale (sostituito da Giove) e, forse un po’ per scaramanzia, il Diavolo (rimpiazzato da un galeone spagnolo piuttosto che da una più eloquente “nave di folli”), ma non la morte, né la miseria, neppure l’impiccato e neanche il “fuggitivo”.


Ne “La survivance des dieux antiques (1939), Jean Seznec (1905-1983) interpreta gli affreschi di palazzo Schifanoia e i Tarocchi del Mantegna quali illustrazioni dei manoscritti attribuiti ad Alexander Nequam (1157-1217), De deorum imaginibus libellus e Alberici philosophi liber ymaginum deorum, dai quali Petrarca aveva estratto l’elenco del pantheon di Siface, riportato nei versi della sua Africa.


Le divinità pagane, quando compaiono nei Tarocchi, sono sostanzialmente rimembranze astrologiche, o d’ispirazione isiaca o mitraica, ma a questa consuetudine il mazzo cosiddetto del Mantegna non si accoda, rappresentandone una singolare rarità.


La XLIV carta (gruppo A, Sol) mostra il carro infuocato dell’Helios (Apollo), da cui è appena caduto Fetonte. La XLI, la Luna, non si distacca da tale iconografia, nel rappresentare il plaustro di Artemide nel mentre attraversa il cielo in direzione opposta (da destra verso sinistra). Nel gruppo D, ritorna il dio Apollo come carta più alta, insieme con le nove Muse, ma ordinate senza rispettare una specifica motivazione (Caliope, Urania, Terpsicore, Erato, Polimnia, Talia, Melpomene, Euterpe, Clio), laddove semmai Erodoto le nomina nella sequenza: colei che rende celebri (Clio), colei che rallegra (Euterpe), colei che è festiva (Talia), colei che canta (Melpomene), colei che si diletta nella danza (Tersicore), colei che provoca desiderio (Erato), colei che ha molti inni (Polimnia), colei che è celeste (Urania), colei che ha una bella voce (Calliope), e questa, anche per Esiodo (Teogonia,  incipit, 76-79), “la più illustre di tutte”. Marte (XLV), vittorioso, ricorda la VII lama dei tarocchi classici, che raffigura il Trionfo per antonomasia; Saturno (XLVII) sarebbe diventato l'Eremita (IX), altrimenti detto il Tempo, o il Vecchio, oppure la Morte (XIII) con la falce, mentre la cornice a mandorla di Giove (XLVI) ricorre, quale ornamento, nella XXI Lama dei tarocchi classici (il Mondo), in quelli siciliani il dio persiste al posto de il Giudizio (XX), nei Besançon sostituisce il Papa e, infine, nelle carte Bolognesi, a indicare quella che sarebbe divenuta per altri la Torre (XVI) era la sola Saetta, disarticolata da attributo della divinità, come accade per gli elementi araldici, a dimostrazione di un analogo, implicito, linguaggio comune.

 


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